13 ottobre 2014, Columbus Day a New York. È la giornata che Massimo Bottura ricorderà con più gioia di questa già soddisfacente trasferta americana. Centinaia di persone in fila per ore da Shake Shack a Madison Park, il chiosco di hamburger più famoso del mondo. Erano in fila oggi dalle 8 del mattino, mica da mezzogiorno, per provare l’Emilia, il pop-up burger in edizione limitata, tirato in soli 1.000 esemplari nel giorno di Cristoforo Colombo. Tutti bruciati in poche ore, come i biglietti di una finale dei mondiali. E domani niente bis a Manhattan: temporary burger is now gone. Anche perché era l'ultimo giorno di apertura della casa madre. Dopo dieci anni il tagiando è d'obbligo. E patron Danny Meyer lo ha già dichiarato: "Qui chiudo con Massimo e a metà del 2015 riaprirò con Massimo".
All'ora di pranzo, momento clou della giornata, lui riusciva a stento a stare seduto al banco allestito da Phaidon per firmare le copie del volume “Never trust a skinny italian chef”, appena uscito. Catechizzava ad alta voce i newyorkesi entusiasti: «Questo non è un libro sulla cucina, ma sulla creatività. Ci ho messo appena 28 anni per farlo». E il secondo dopo schizzava a scattare selfie e foto con anziani e teenager che lo reclamavano alla maniera di un attore di Hollywood: «Ma io sono un cuoco, non chiamatemi rockstar» mentre abbracciava e stringeva tutti. Poi ancora si catapultava ai tavolini verdi per spiegare alla gente: «Avete visto?! Sono riuscito a dare alla carne una consistenza più gelatinosa. E la maionese delle patatine? È il massimo della naturalezza!». Poi si rialzava e rispondeva alle interviste della tv, con i giornalisti che perdevano l’aplomb e d’un tratto diventavano tifosi: «You’re great».

La coda ordinata di Madison Park. Ingredienti dell'hamburger Emilia: carne di manzo, parmigiano reggiano, salsa verde, salsiccia di cotechino e maionese balsamica con aceto balsamico
«Ho accettato subito l’offerta di
Shake Shack», spiegava, «perché nessuno sa elevare la dignità dello street food come loro. Siamo su livelli altissimi». Una questione di terroir: «Volevo reinterpretare l’Emilia con tutti i migliori ingredienti della nostra
food valley. Inquadrare l’hamburger da un punto di vista critico e non nostalgico. Guardassi solo al passato, ne avrei fatto uno classico e avrei detto 'perfetto così'. Invece no: qui ci sono parmigiano reggiano, cotechino e aceto balsamico, che concorrono al perfetto equilibrio tra acidità, dolcezza e
bitterness. Pochi bocconi di grande gioia». Contagiosa perché sarebbero occorsi i vigili per ordinare la coda che tracimava dai recinti del parco.
In chiusura di giornata esprimeva un concetto che tra i nostri confini dovremmo mandare a memoria: «In Italia abbiamo bisogno di entusiasmo e passione perché il mondo ci vede molto meglio del quadro depresso che abbiamo e diamo di noi stessi. Con la passione si esce dalla palude, da quel senso impaurito di stare in the middle of nowhere». Dobbiamo smetterla di implodere in noi stessi: «Bisogna viaggiare, capire cosa succede nel mondo. Quando vengo a New York mi ricarico di un tale entusiasmo che al ritorno a Modena contagia i miei ragazzi e la nostra cucina».

Il cuoco firma al parco le copie di "Never trust a skinny Italian chef", "il mio primo libro in 28 anni" (Phaidon editore)
Poi l'ha rapito la giornalista
Melissa Clark del
New York Times, con cui il cuoco ha avuto un grande scambio la sera prima intorno alla genesi e ai concetti di creatività. Conosceremo gli esiti sulla Wednesday section del quotidiano il 22 ottobre prossimo. E mentre il modenese spiegava a
Oscar Farinetti come ha fatto a recapitare a New York tutti gli ingredienti dalla terra madre, arrivava anche il ristoratore newyorkese
Danny Meyer a consacrarlo: «Dimmi tu se un italiano deve venire qui in centro a Manhattan a fare un hamburger migliore di quello degli americani». Avessimo sistemato quattro o cinque
Bottura in posti chiave, l'Italia avrebbe risolto i suoi problemi da un pezzo.