Le cronache gastronomiche danesi registrano l’apertura del primo chiosco ambulante di hot dog a Copenaghen nel 1918. Ma la gente non lo chiama ancora così. Ordina del “pane con salsiccia”, lasciando agli americani la bizzarra assonanza tra il würstel e il genere canino. Popolarità e diffusione ascendono al picco negli anni Settanta, quando le autorità del piccolo paese nordico censiscono circa 400 mezzi. Ognuno è autorizzato a infilare il salsicciotto caldo nella feritoia di un panino oblungo oliato da senape, ketchup o maionese. Un traffico febbrile di mezzi fumanti a ruote, inseguiti da orde di educati operai e impiegati, smaniosi di dare un senso alla pausa pranzo.

Il Food Festival di Aarhus ha registrato 27mila presenze nel fine settimana. Tra gli stand, tanti marchi di birra artigianale, chioschi di gelato all'azoto liquido, distillatori di mele, interpreti di smørrebrød e produttori di delizioso formaggio Unika
Dagli anni Ottanta in poi, comincia il lento declino. L’hot dog è penalizzato dalla crescente concorrenza di fast food e di sushi bar. E dal fulmineo sorpasso a sinistra dello smørrebrød (per la pronuncia clicca il piccolo megafono a questo link), il pane di segale imburrato che può reggere a vassoio pesce, carne e/o verdura. È l’irruzione del vero working class hero di Danimarca, il sandwich aperto che, nella medesima preparazione, accorda il lavoro dei pescatori, quello dei contadini e i gusti della borghesia cittadina. A dirla onestamente tutta, occorre precisare che hamburger, sashimi e smørrebrød hanno gioco facile a sfidare un prodotto che si è squalificato via via da solo perché la qualità dell’hot dog è in tanti casi infima, scemata (o mai migliorata) nei decenni. «Piuttosto che mangiarli», ebbe a lamentarsi il critico gastronomico locale Ole Troelsø, «preferisco fare la fame».
«Peccato, però», aggiunse lo studioso, «che un simbolo storicamente così importante per la nostra gente sia finito tanto ai margini». Che tanti venditori abbiano deciso di parcheggiare per sempre il carrettino in garage, senza nemmeno provare a imboccare nuove strade. Per sensibilizzare nuovamente l’interesse dei concittadini per il cane caldo, nel 2008 s’inventa la prima edizione del Danish Hot Dog Championship. L’ultima, la settima, ha avuto luogo pochi giorni fa al Food Festival di Aarhus, primo porto e seconda città più popolosa del Paese (poco più di 300mila abitanti). Un borgo universitario vivace (più che altro al sabato sera) nella regione dello Jutland, a 3 ore di treno da Copenaghen.

GOLIARDICO. A destra, lo chef Paul Cuninngham, chef inglese dell'Henne Kirkebi Kro a Henne
Alla gara hanno partecipato decine di chef importanti del paese. Affiancavano il loro ardore creativo al mestiere tradizionale degli
hot dog street vendor superstiti che non vogliono rassegnarsi. Gente che sta con le ciglia aggrottate sulle barricate, cercando di lavorare meglio sulle farine e sull’impasto del pane, sulla selezione giusta della carne di maiale e sulla produzione propria di salse e
topping. E che nel contempo butta un occhio sul lavoro di chef d'alta cucina come
Paul Cunningham, una vecchia conoscenze di
Identità: l’inglese che oggi magnifica la
Danimarca più di Shakespeare, ha squassato i palati con una versione imbastardita tra hot dog e
bánh mì, la mini-baguette franco-vietnamita, stravolta nell’occasione da patè di fegato, ciccioli e pelle croccante di maiale, coriandolo e salsa chili.

L'hot dog più venduto? Quello di Rasmus Munk del Tree-top di Vejle
Tutte le postazioni concorrenti sono state prese d'assalto da migliaia di danesi, ordinatamente in coda. Qua e là grondavano da pan brioche di ogni consistenza e colore, camembert fritti, pure di patate con mousse di gamberetti, intestini e fegato d’anatra con bagnetti verdi, cuori di bue, pelli d’agnello con spezie calde, tartufi e bacon. Hot dog noridicissimi con cipolla rosolata, gamberi fritti e aneto misti a panini transcontinentali con chili, agnelli croccanti, onion ring e scaglie grasse di Joselito. Più importante di tutto, il contest ha raccolto 120mila corone danesi (circa 16mila euro), tutte finite in beneficenza. Una grande rassegna che sta spingendo nelle strade di Aarhus e Copenhagen un bel numero di carrettini, tirati nuovamente a lucido. Porchettari e focacciari delle nostre parti prendano nota.