Inquadriamo la storia in un incastro di scatole cinesi. Quella che le contiene tutte è la Sardegna, isola di signori poco abili, se non proprio disinteressati, a mettersi in vetrina. Una riluttanza a esporre i gioielli di famiglia figlia di un individualismo parossista di tanti suoi abitanti, che storicamente godono di più delle disgrazie del vicino che non delle grazie proprie. L’aneddotica popolare è gonfissima in materia: fatevi raccontare quella del signore che per pura invidia voleva spegnere con l'acqua della canna il maiale al girrarosto del vicino.
O di quello che trova la lampada dei desideri ma al genio chiede di farsi cavare un occhio, affinché al dirimpettaio ne vengano cavati due. Del resto, se io di Sassari parlo in dialetto e tu di Cagliari non mi capisci per nulla, chi me lo fa fare di costruire un vocabolario comune? Di buono c’è, si fa notare, che l’incomunicabilità nord-sud o paese-paese impedisce alla criminalità di organizzarsi e prosperare. Organizzarsi sì o organizzarsi no? La risposta soffia nel maestrale.

Gelato di gamberi, crema di riso di San Gavino, mandorle e limone, un gran piatto costruito su contrasti termici e di genere
La scatola numero due della nostra storia si chiama
Marmilla, subregione dell’entroterra sardo, scenografica almeno quanto i vicini mari e litorali glamour (sempre meno glamour, viste le de-briatorizzazioni in corso). Un fazzoletto tra Cagliari e Oristano, chiuso a sud dai Sanluri e a nord da Ruinas. Una regione disseminata di colline dolci come mammelle (=
marmilla), mandorli e alberi da frutto tra la macchia, solenni
nuraghe e campi di grano che spesso non ne vedi la fine. Al cuore della Marmilla c'è
Siddi, la terza scatola, un paese sonnolento di 600 anime sempre più spopolato per effetto del neonato che nasce ogni 3 mesi e di altrettanti anziani che si spengono ogni 30 giorni. Un borgo di grande fascino, scritto dal silenzio interrotto solo dal canto del gallo, della gente che ti offre il mirto al bar senza averti mai visto prima, del pastore che affida il gregge di pecore al cane per scortarti in macchina alla destinazione smarrita.
E così siamo al cuore del percorso concentrico: S’Apposentu di Casa Puddu. È un ristorante come di rado se ne trovano vicino, in continente e oltre. Un intero sommato dalle due metà del nome: S’Apposentu, innanzitutto, è “il salotto buono di casa” itinerante di Roberto Petza, un cuoco 44enne che ne dimostra 5 di meno del 39enne che scrive. Un ragazzo che dorme 10 ore a settimana, tanto crede nel progetto della cucina e dell'accademia (che lui stesso ci ha raccontato). Il monaco di un'insegna che si chiamava uguale nella nativa San Gavino Monreale (1998), al Tetro Lirico di Cagliari (2002 e una stella) e in quello attuale, in cui spera di rimanere a lungo, di Casa Puddu. E così veniamo all’altra metà del nome del ristorante.

Il cuoco nasconde una vena artistica: sua l'installazione della foto, esposta al primo piano di Casa Puddu, sede di frequenti esibizioni. E di un'ambiziosa Accademia di cucina
Casa Puddu prende il nome dal suo fondatore,
Francesco “don Ciccittu” Puddu, un imprenditore di inizio secolo che dopo la guerra iniziò ad acquistare dei macchinari per trasformare il grano duro in pasta. Nacque il
Pastificio Puddu, gloria di Siddi fino a metà anni Novanta, quando fu rilevato dalla
Parmalat di
Tanzi a scopo di rilancio. Intenzioni apparenti, che nascondevano il fine opposto: eliminare un concorrente. E infatti venne chiuso poco dopo. Occorrerebbe una sfilza di pagine elettroniche per raccontare la storia del grano in Sardegna, un tempo serbatoio d’Italia, ma oggi retrocesso di rango per una progressiva conversione delle colture. E per la condotta anti-autoctona di imprenditori come
Cellino, presidente del Cagliari calcio, che oggi usa solo cereali canadesi per comporre la sua
Pasta di Sardegna.
Il percorso di Petza va all’opposto: parte dalla pasta locale, soffiando sulla polvere che seppellisce vecchi ricettari locali. E sonda teoria a pratica di formati come marraconis filaus, tallutzas, lorighittas, pillus di semola. Paste messe a seccare sui tetti di questo splendido complesso liberty di Siddi (vedi fotogallery in fondo), rimesso a nuovo da pochi anni. Filamenti che non richiedono trafile ma lo splendido grano duro Senatore Cappelli della Cooperativa Madonna d’Itria di Villamar, refrattaria a dare l'ultimo colpo di spugna al glorioso passato pastaiolo.
Petza esibisce l’intelligenza della cucina di prossimità, la volontà di scandagliare i dintorni per costruire una casa comune coi mattoni di tanti. Se nell’orto oltre la terrazza del S'Apposentu - fazzolettone nel quale il cuoco trascorre ore su ore a piantare, potare, disinfestare – la lattuga appassisce per una fiammata improvvisa di caldo, ecco che accorre l’ortolano di Siddi, con un secondo cestello colmo di cipolle e zucchine. Quel signore di Nurallao ha l’hobby del tartufo scorzone? Te lo compro tutto io. Il maialino e gli agnelli? Prendiamoli dai fratelli Cuscusa di Gonnostramatza, ‘che loro sì che li uccidono nel modo giusto, evitando dissanguamenti feroci e bruciando il pelo con la paglia e non per fiamma diretta. L’olio per il pane carasau? Affidiamoci all’Oleificio Podda di Ussaramanna, bio-molitori scrupolosi.
Certo, oltre il mercato dev’esserci la mano del cuoco, sennò sei solo un semplice collezionista di primizie. Ma con
Petza il pericolo non c’è perché lo studio matto e disperato è assistito da un talento creativo debordante, specie nell’associazione di ingredienti che, a sentirli a voce, 9 su 10 ti danno del matto. Che follia cela in effetti quel super
Gelato alle cipolle con ricciola affumicata e prosciutto croccante di pecora proposto pronti via. Che party papillare scatena lo spiazzante caldo-freddo del
Gelato di gamberi, crema di riso di San Gavino, mandorle e limone. Che arma da brandire contro gli scettici quella pecora che ritrovi nel ragù delle
tallutzas, nei raviolini con cipollotto e menta, nel brodo che lascia nuotare frammenti di triglia cruda, cotta in bassissima direttamente al tavolo. O nello stesso pecorino di
Cuscusa, che affina nella cantina dei vini.
Un Don Chisciotte della Marmilla, che contrasta i mulini a vento delle alterne sensibilità delle autorità. Della sala che troppi stagisti interpretano come punto di transito in attesa di un impiego altrove. Del pregiudizio, duro a morire in Sardegna e in Italia, che «lì mangi poco e spendi tanto», alla faccia dei due degustazione, di terra e di mare, che neanche su Groupon: 48 euro per 6 super-portate. Un volteggiare di spade che recluta anche il socio Gianfranco Massa. E uno squadrone under 30 che si muove tra sala, cantina e accademia: il tuttofare Domenico Sanna, il sommelier Francesco Tuveri, il sous-chef Alessio Cancedda. Tanti giovani Sancho Panza che lottano per dare una sterzata allo status quo. E che dicono che, se certe storie hanno per teatro Castel di Sangro o Cornaredo, non si vede perché il sogno non possa prolungarsi a Siddi.