Quando si parla di fermentazioni, le reazioni dei cuochi divergono radicalmente. Per una fetta crescente di professionisti sono il futuro della cucina; l’altra fetta le ignora perché le considera avulse dalla propria identità e cultura. Quelli della prima fazione sono inclini a fermentarsi anche i fazzoletti per il naso; quelli della seconda le tengono fuori dalla porta perché, motivano ad esempio tanti chef italiani, «i nostri prodotti freschi sono così buoni e disponibili sempre che non c’è necessità di fermentarli».
Sono i due partiti di un dibattito acceso, in corso da qualche tempo e di sicuro destinato a rinfocolare i prossimi anni. Il punto di vista più saggio è quello per cui, in linea generale, un cuoco che crede nell’innovazione non dovrebbe mai precludersi nessuna via. Il pregiudizio mascherato dalla conservazione di un'identità non vince mai: prima di dire no, è sempre meglio provare. Certo, non è esercizio obbligatorio e ognuno è libero di realizzare le trasformazioni che vuole, però occorrerebbe considerare alcuni fattori che ci risultano più chiari dopo un approfondimento tenuto al Noma qualche giorno fa.

“Noma. La guida alla fermentazione”, Giunti editore (460 pagine, 49 euro, si acquista online)

Il canadese David Zilber e il danese di origini albanesi/macedoni Rene Redzepi, autori della Guida. (foto Christopher Ho/KCRW)

Alcune basi di cucina del Noma
Intanto, qual è la definizione di “fermentazione”? Ce l’ha data
David Zilber,
master fermenter del ristorante di Copenhagen e fresco co-autore - col suo capo
René Redzepi - del libro “Noma. La guida alla fermentazione”, vademecum imperdibile per chi è anche vagamente interessato al tema, appena
tradotto in italiano da Giunti editore. «Fermentare», stringe il campo il cuoco canadese, «significa trasformare un alimento in un altro alimento attraverso l’azione di microrganismi». Un processo controllato: «C’è sempre bisogno di qualcuno che sovrintenda alla trasformazione. È il fermentatore, colui che decide cosa entra e cosa no in un alimento. Questo signore ha lo stesso ruolo del buttafuori delle discoteche: tiene fuori i microbi indesiderati e lascia entrare quelli che fanno esplodere la festa».
Se la definizione è questa, la tesi del cuoco italiano scettico si smonta subito: sono prodotti fermentati il vino, la birra, i distillati, il Grana Padano e il Parmigiano, l’aceto, lo yogurt, il pane, la pizza… Cioè tutti alimenti simbolo o di uso comune della nostra dieta. E allora perché non fermentare anche altri alimenti? Nel libro e nelle dichiarazioni dal vivo,
Redzepi&
Zilber mostrano un entusiasmo con profonde radici: «Le fermentazioni sono il metodo di cottura più antico che esista, pre-esistono anche alla scoperta e utilizzo del fuoco. E sono alla base della dieta di ciascuna civiltà, nessuna esclusa». Per esempio: «Il
rye bread, il pane di segale, l’alimento più famoso di Danimarca, è una fermentazione, così come lo sono le nostre aringhe. E pensate cosa sarebbe la cucina francese senza il vino, quella giapponese senza
shoyu e
miso, quella coreana senza
kimchi o salsa di soia, quella tedesca senza i crauti». Insomma, paese che vai, «fuoco freddo» che trovi (la bella definizione l’abbiamo letta su “Cotto”, volume importante sull’argomento scritto dell’americano
Michael Pollan).

Koji, cioè riso o farro inoculato con fungo Aspergillus oryzae

Koji in stato avanzato di fermentazione

I sandwich di muffa del Noma
Chiarito il peso storico sulla nostra dieta, per i ragazzi del
Noma la fermentazione è soprattutto l’asse portante della cucina del futuro. «È un’asserzione forte», spiega sicuro di sé
Redzepi, «ma lo era anche l’introduzione dei ricci di mare nella carta del Noma, 15 anni fa: allora appariva bizzarro come cucinare carne di zebra. E sembrava strana anche l’idea di far servire i camerieri al tavolo, ma anche quella oggi è diventata la regola di tanti ristoranti. Siamo certi che
fermentation is the future of flavor. Che batteri, lieviti e muffe possono trasformare il cibo da analogico a digitale, moltiplicare a dismisura lo spettro dei sapori. Lo sanno già le multinazionali, che stanno ideando kit di fermentazioni per far sperimentare la gente comune a casa propria».
Al
Noma oggi c’è coerenza tra teoria e pratica: «Se all’inizio della nostra storia non avevamo assolutamente idea di come potesse funzionare una fermentazione, oggi in ogni singolo piatto dei nostri menu c’è un alimento fermentato. Tutto cominciò, casualmente, mettendo sotto sale del
gooseberry (uvaspina), nel 2008, sul vascello del Test Kitchen ancorato davanti alla vecchia sede. Oggi la fermentazione è il vero pilastro del nostro ristorante, molto più di quanto lo sia il
foraging, la pratica con cui la gente è solita identificarci».
Se queste argomentazioni hanno fatto un minimo di presa sul lettore, il passo successivo è acquistare la
Guida alla fermentazione del Noma. Il libro si concentra su 7 tipi di fermentazioni, più una:
acidolattica,
kombucha,
aceto,
koji,
miso,
shoyu,
garum più frutta e verdura “nera” (
blackened) - che tecnicamente non sono figlie di un processo fermentativo ma hanno molto in comune con quelle. Non si parla dunque di alcolici, salumi, pane o formaggio, prodotti largamente diffusi nell’Occidente: ancora una volta
Rene Redzepi guarda soprattutto a usanze di altri mondi, specie a Oriente – lo ha già fatto con alghe e formiche – e le applica alle materie prime delle sue lande. Guarda altrove per definire il suo
terroir microbico, un concetto di grande fascino e dalle infinite potenzialità.

Il garum di cigno del Noma. Si parla di garum - prodotto delle cosiddette fermentazioni secondarie, cioé mescolanza di koji con proteine animali - già in "De re coquinaria" di Apicio, un testo di 2mila anni fa
Il tomo, 460 pagine, inquadra ogni prodotto fermentato da un punto di vista storico, sforzandosi di circoscriverne la funzione scientifica e le caratteristiche di gusto. Suggerisce più che indicare, semplifica più che dettare oscuri tecnicismi. Mette assieme decine di preparazioni, dalle prugne lattofermentate agli scalogni neri cerati; dall'aceto di
gammel dansk allo
shoyu al caffè. «La fermentazione migliora tutti i sapori», giura il danese, «Quando assaggerete il prodotto dei vostri sforzi, non riuscirete più a farne a meno».
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