Per prima cosa, occorre fare ammenda della nostra ignoranza. Chi mai s’immaginava che la Georgia potesse essere un paese tanto bello e ospitale? Ora che è primavera inoltrata, il paesaggio di questo lembo caucasico si srotola lungo un esteso altipiano verde orizzontale di 500 chilometri, scarsamente popolato e percorso da una piacevole brezza. Gli abitanti non sono nemmeno 5 milioni e ogni anno ne accolgono uno in più di turisti, col sorriso sempre pronto ad accendersi e i calici a un passo dal librarsi per aria.
Insomma, la Georgia è un piccolo eden a 4 ore di volo dall’Italia: tecnicamente siamo ancora in Europa e il bello è che il paese non chiede visti costosi e complicati per farsi esplorare. E' una nazione stretta ai lati da due mari – il Nero a ovest e il Caspio a est, cui però non ha accesso – e due catene montuose: le vette da 5.600 metri del Grande Caucaso, che calpestano quasi tutto il confine settentrionale con la Russia, respingendo le correnti gelide della Siberia, e quelle del Piccolo Caucaso che segnano il confine a sud con Turchia, Armenia e Azerbaijan, uno schermo alle ventate calde che altrimenti salirebbero dalla Persia. Un bacino dal suolo e dal clima molto simili ai nostri.
Chi mai si sarebbe immaginato che la capitale Tbilisi fosse una piccola Gerusalemme? Tutte quelle chiese ortodosse e armene, le sinagoghe, le moschee e i templi zoroastriani, i colorati caravanserragli e le scenografiche case a picco sul fiume Mtkvari. È la gemma incastonata nel paese, purtroppo ancora noto più che altro per le schermaglie con la Russia (Ossezia del Sud e Abkhazia sono due regioni ancora contese, per le quali morirono centinaia di soldati solo una decina anni fa) e, nel nostro mondo, per il mito che la dipinge come culla del vino mondiale.

Tbilisi vista dalla città vecchia
Cominciammo a sentire quest'ultima teoria dal vignaiolo al confine italo/sloveno
Josko Gravner, una quindicina di anni fa. È stato lui ad alimentare tra i nostri confini la leggenda della Georgia e del vino in anfora, dando vita a splendidi nettari (principalmente il monovitigno
Ribolla e l’uvaggio
Breg, che però ha smesso di produrre nel 2012) e a una schiera di epigoni che hanno cominciato a vinificare allo stesso modo, dal Collio a Pantelleria.
Ma la Georgia è davvero la culla del vino mondiale? Grazie al lavoro del
Georgian National Tourism Administration &
Georgian National Wine Agency, scopriamo che storici, archeologi e paleobotanisti di tutto il mondo sono concordi nell’affermare che da queste parti si brindava con succo d’uva fermentato già 8mila anni fa. Era l’epoca
Shulaveri e questo corridoio era già un affollatissimo punto di transito tra la Siberia alla Persia, l’Occidente e la Cina.
I proto-georgiani furono tra i primi a stabilirsi e ad addomesticare la vite. Lo accertano continue spettrometrie e cromatografie, esperimenti che stanano sostanze organiche riconducibili al vino su reperti di argilla di 6mila anni prima di Cristo, cioè 5 millenni prima che il vino cominciasse a fare capolino nelle abitudini dell’Europa continentale. Se poi vi prendeste la briga di scavare nelle tombe dell’età del bronzo (3.300-1.200 avanti Cristo), trovereste mucchi di ossa ancora abbracciati alle coppe. Si sarebbero portati il vino nell’oltretomba.
L’unica querelle che non ha ancora una soluzione è se il vino sia nato prima nell’attuale Georgia o nella confinante Armenia. Di certo c’è che i georgiani sono storicamente un popolo più stanziale dei cugini di Erevan, gente dall’inclinazione più nomade e per questo meno portata a dipendere dai frutti della terra. Poco cambia, comunque, alla sostanza del discorso: il Caucaso è l’indiscussa culla del vino mondiale, una consapevolezza che nell’ultimo decennio sta cominciando a generare grande attenzione, fino ad assumere i contorni di una moda.

Alcune bottiglie in assaggio alla fiera di vini naturali Zero Compromise, l'11 maggio scorso a Tbilisi
Per capirlo, bastava essere presenti a
Zero Compromise, affollatissima
wine fair tenutasi settimana scorsa alla
Fabrika di Tbilisi, un complesso che pareva di stare a Berlino. C’erano una sessantina di produttori di vini biologici e biodinamici, una percentuale "naturale" ancora limitata al 7% della produzione nazionale ma in forte aumento. Con loro, tenevano lezioni sulle virtù dei vini georgiani sommelier di grandi ristoranti (specie nordici come
Noma o
Amass), importanti distributori italiani e americani (tra cui
Luca Gargano di
Velier, uno che cominciò a fiutare la nouvelle vague georgiana due decenni fa) e giornalisti dal New York Times in giù.
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Il boom dei vini georgiani