Segue dalla prima parte
Il prologo dovrebbe già essere familiare al lettore: in una giornata di tepore primaverile troviamo posto con Massimo Bottura da Sukyiabashi Jiro, il bancone di sushi più famoso del mondo. Dalle 17.16 alle 17.38, il 92enne Jiro Ono plasma e poggia al desco 20 pezzi di riso e pesce – quelli che prevede il menu degustazione, obbligatorio per tutti i commensali – più 3 fuori carta e altri 2 bis a nostra scelta.
Questa è la sequenza del degustazione da 20: preludio con sogliola (hirame); seppia (sumi-ika) e dentice (shima-aji). Un trittico di tonno, servito in ordine di grassezza: delicato (akami), ventresca semi-grassa (chu-toro) e molto grassa, ricavata nella parte del ventre più vicina alle branchie (oo-toro). Poi sardina (kohada); abalone (awabi); sugarello (aji); scampo bollito (kurumaebi); ancora sardina, questa volta marinata (iwashi); vongola rossa (akagai); tonno bonito (katsuo); vongola giapponese (hamaguri), lo stesso sgombro del nono passaggio, questa volta marinato (aji-su); riccio di mare (uni); capasanta mignon (kobashira); uova di salmone (ikura); grongo, ossia anguilla di mare (anago) e uovo fritto (tamago).
Uno knock out da 25 pezzi, consumati in 22 minuti. Uppercut e jab travestiti da una furiosa acidità che, nei primi 3 pezzi, violentava un palato del tutto indifeso davanti ai colpi. «Succede perché, quando siedi da Jiro», ha commentato bene Bottura 72 ore dopo, «ci vogliono sempre tre bocconi: il primo è per connettere il palato mentale, il secondo per prendere familiarità col sapore, il terzo per iniziare ad apprezzare». Una legge che il modenese ha imparato coi travasi dell’Aceto Balsamico Tradizionale: «E’ solo al terzo assaggio che il palato comincia ad avvertire i sapori terziari». In effetti, dal quarto pezzo in poi è sceso un caos calmo, spianato da quella stessa acidità frastornante sulle prime.


Scampo bollito (kurumaebi)
«L’acidità», ci spiegherà dopo
Jiro, «è la componente gustativa fondamentale del sushi. L’aceto è importantissimo. Ma c’è un altro ingrediente ancora più rilevante, il riso. Se lo scegli o cuoci male, ne risente proprio l’acidità complessiva». «Ascolto spesso i miei colleghi affannarsi a rincorrere il pesce migliore», continua il giapponese, «Dicono ‘questo
toro o questo calamaro sono buoni o meno buoni’. È giusto, certo, ma questo tempo non deve andare a discapito della qualità del riso, che incide per il 60% nel sapore complessivo del sushi. Il pesce non arriva mai al 40».
Vengono in mente le forme collose che flagellano tanta ristorazione giapponese in Italia: nella migliore delle ipotesi, il riso è spesso un veicolo neutro studiato per traghettare una striscia di pesce. Se va peggio, è un agglomerato compatto e appiccicoso che poi spinge tanti clienti a ripiegare sul sashimi (che da
Jiro non esiste): perché, infatti, farsi del male col porfido? «Il tempismo del servizio è fondamentale», aggiunge Jiro, «la temperatura dev’essere la stessa dell’ambiente».

Vongola giapponese (hamaguri)
Poi c’è la mano che fa la differenza: il maestro, mancino, ci mostra un palmo sinistro di un ragazzo: è morbido e affilato. I giapponesi la chiamano «la mano sinistra di Dio», come quella di
Maradona (che però la sfoderò per scopi meno nobili). «Non posso spiegare come faccio a modellare il sushi perché è un gesto naturale, istintivo. Presso solo la parte esterna del riso, un espediente che gl’impedisce di indurire». «Quello che a me impressiona sempre», precisa
Bottura, «è che il tuo riso non è per nulla compresso: c’è sempre un’intersezione d’aria tra un chicco e l’altro. È ossigeno che amplifica tutti i sapori».
Un’altra grande differenza che salta all’occhio col sushi di serie B è la formula del degustazione. «I pezzi», torna Jiro, «vanno degustati, aprezzati uno per volta. Non sono studiati per sfamare o riempire lo stomaco». Tanti ristoratori servono uno o due antipasti e subito dopo il sushi: «E’ sbagliatissimo: così il palato capisce poco». È saggezza costruita in 84 anni di mestiere, la stessa che 17 anni fa gli fece abbandonare la formula à la carte a favore del menu degustazione unico, da 20 pezzi. Una sequenza che procede in ordine di grassezza, lasciando i pesi massimi in fondo. «E’ la rivoluzione più influente di sempre nel mondo del sushi», spiega il critico e amico Matsuhiro Yamamoto, «Oggi a Tokyo lo fanno quasi tutti». Chissà quanto tempo impiegherà ad affermarsi anche da noi.

Ricci di mare (uni). Cremosissimo, dolce, scioglievole. Abbiamo chiesto il bis. Il costo del menu è di 30.000 yen più tasse (circa 250 euro). In accompagnamento si beve tè o acqua

La mano sinistra di Jiro, mancino
«È una sequenza», osserva
Bottura, «concepita nel tempo come una sinfonia coi suoi momenti: minuetto, allegro, crescendo, gran finale». Le note scoccano da una parte fissa e da un’altra che varia col pescato del giorno. Il paniere è lo stesso da decenni: non entrano mai esemplari spinti da mode passeggere. «Tutti mi chiedono se il mio sushi sia tradizionale o innovativo», conclude
Jiro, «Non so proprio cosa rispondere. Io penso solo a fare le cose sempre meglio».
Appendice finale: al
Sukyiabashi è concesso mangiare il sushi con le mani. Occhio però ad afferrarlo dai lati lunghi, e non alle due estremità: potrebbe cadervi rovinosamente sulle ginocchia, sprigionando fulmini dall'iride di
Jiro. E giammai solleverete il pesce dal riso. Potreste essere banditi per sempre.
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