La deflagrazione dell’autobomba alla vicina Vodafone Arena ha fatto tremare forte anche il nostro hotel, ma qualche ora prima avevamo assistito a un’altra onda d’urto, però buona e fertile, in questa Istanbul un po’ smarrita, un po’ tenace, certo sempre dinamica e con tanta voglia di ripartire, perché proprio così abbiamo trovato la città che ci ha ospitato negli ultimi giorni. L’onda era quella della “nuova cucina turca”, un movimento ancora senza definizione, lo battezziamo noi in tal modo, per comodità e analogia con altri processi paralleli cui si assiste in altre zone del globo: vuole innestarsi nella crescita economica circostante intanto per valorizzare una propria proposta culinaria che non ha badato troppo, in passato, alla qualità di grandi materie prime quali anche questa regione può offrire in abbondanza (il che significa per prima cosa: lavorare coi produttori, selezionare le eccellenze e le rarità, tutelare la biodiversità, fare rete) e poi darle un nuovo impulso, una nuova veste. Renderla contemporanea. «Vogliamo liberarci dall’immagine che il cuoco turco faccia solo kebap», come è stato detto.

Sono questi i temi di fondo che hanno tenuto banco a
Gastromasa, seconda edizione per la
Conferenza internazionale della gastronomia che si è chiusa proprio poche ore fa nella metropoli tra Europa e Asia. La kermesse ci ha detto soprattutto una cosa: la Turchia si candida a pieno titolo a entrare nel circuito dell’alta cucina contemporanea mondiale, in quella sorta di visione global-local che applica concetti condivisi da tutti per poi trovarne via via una diversa, specifica espressione territoriale. D’altra parte, il Paese anatolico parte da una posizione privilegiata: può considerarsi erede diretto di quella tradizione ottomana raccontata da
Stéphane Yerasimos ne
A tavola con il sultano, prefazione di
Corrado Assenza, ne
abbiamo parlato qui. Insomma, non deve andare alla ricerca delle proprie radici: può intestarsi queste che può rivendicare come proprie non solo per ragioni storiche, ma anche grazie alla attuale preponderanza sociale, economica e politica che rendono Ankara potenzialmente egemone nel Medio Oriente.

Josean Alija, Albert Adrià ed Elena Arzak ospiti a Gastromasa (e c'era anche Andoni Aduriz)
Sono basi utili per poter scommettere sul futuro perché «l’innovazione è
mainstream a Istanbul. Vogliamo promuovere in tutto il mondo il turismo enogastronomico verso la Turchia. E' nella nostra agenda» proclama il rappresentante del ministero del Turismo e della Cultura. E’ il momento giusto per puntare le proprie fiches su questi temi perché – pensano ad Ankara – il potenziale turistico c’è, il tenore di vita cresce, mentre sempre più donne hanno smesso di fare le casalinghe, ossia di occuparsi dei pasti, per entrare nel mondo del lavoro. Insomma, si vuole cavalcare un’opportunità dettata dai tempi.
Il principale ostacolo è liberare la cucina turca dalla “dittatura del kebap”, come si è già detto. Raccontare – anche e soprattutto all’estero – la ricchezza di sfumature e stili che anima la proposta del passato e del presente, così come quella che vuole ipotizzare un futuro più moderno. E che è incarnato, oggi, sia da chef che lavorano nel Paese – come Mehmet Gürs del Mikla o Maksut Aşkar del Neolokal - che da altri invece all’estero.
C’è ad esempio Serkan Güzelçoban, uno dei tre cuochi turchi a vantare di aver avuto una stella Michelin (dal 2015 e per due anni), e anche il primo e unico a gestire un ristorante d'eccellenza che impiega solo persone disabili. Si chiama Handicap e si trova a Künzelsau, a 45 minuti di distanza da Stoccarda. Lo chef è nato in Germania da genitori turchi: il padre lavorava in una fabbrica di birra, la madre era casalinga. «Volevo cucinare, ma all’inizio ho trovato molte difficoltà a trovare lavoro: appena sapevano che ero turco, s’immaginavano che sapessi fare solo kebap. Allora ho iniziato a girare, a studiare, a investire sulla mia formazione». Nel 2013 la nascita di Handicap, «un nome che non piace a nessuno, ma è stata la nostra sfida. All’inizio proponevamo una cucina di stile francese, avevamo pochissimi clienti. Allora abbiamo cambiato, abbiamo scelto di rispettare le nostre origini», con successo. Nel 2014 è arrivata la stella, l’anno prossimo l’insegna raddoppierà, «apriremo un secondo ristorante», annuncia.

Lo staff di Handicap di Künzelsau, 45 minuti di distanza da Stoccarda: il locale propone alta cucina turca all'interno di un progetto di inserimento sociale. Lo chef Serkan Güzelçoban è il quarto da destra (foto Die Welt)
Ci si sposta in Australia per raccontare la storia di
Somer Sivrioğlu, nato a Istanbul ma «pessimo studente», racconta (mica tanto: si è laureato al Management Department della Bilkent University) e per questo emigrato in Australia per fare fortuna. L’ha trovata: ha aperto il suo primo ristorante,
Efendy, a Sydney, «sono stati gli stessi clienti a chiedermi sempre più che cucinassi con uno stile personale che si rifacesse alla scuola turca». Il successo gli ha permesso di alzare la saracinesca anche nella sua seconda insegna,
Anason.
Sivrioğlu è un autore di molti libri sulla gastronomia turca, ne ha introdotto l’eccellenza nel Nuovissimo Continente, adatta le ricette in base ai prodotti disponibili in Australia, «cerco originali similitudini», apprezzate anche da
Nicole Kidman, tanto per dire.
Il più innovativo del terzetto, composto tutto da giovani, è però Fatih Tutak, uno che è stato fulminato dalla passione per il cibo a 8 anni «mentre guardavo mia mamma che cucinava delle cipolle. Rimasi impressionato da quell’odore». Oggi propone cucina turca in Thailandia, all’House on Sathorn di Bangkok, dopo esperienze a Pechino, Tokyo (Nihonryori Ryugin, tre stelle), Singapore, Danimarca (al Noma) e Hong Kong. Dice: «Vado sempre più verso le mie radici, ma non in senso nostalgico. Non voglio prendere le ricette della nostra tradizione e imbellettarle, renderle esteticamente più accattivanti, ma in sostanza restare fermo lì. Preferisco usare i nostri grandi prodotti per ideare piatti nuovi». E’ la Turchia che guarda al futuro con ottimismo, nonostante tutto.