Foto Brambilla-Serrani
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È un nome difficile da ricordare, ma impossibile da dimenticare, un marchio napoletano che nel raddoppio delle consonanti e nell’improbabile sommarsi delle vocali esprime la vocazione campana per la generosità e l’eccesso. Con un tale nome, si è chiamati a un grande destino, fortuna nostra che Antonino l’ha impiegato in cucina. Già i natali, del resto, furono prestigiosi: nacque a Vico Equense, un paese di 20mila abitanti che ha sfornato eccellenti ristoranti e che, come una mareggiata, ha portato sino al Piemonte il talento di Cannavacciuolo. Il quale, cammin facendo, si è arricchito della necessaria tecnica, ha eliminato gli eccessi, curato le presentazioni, limato le imperfezioni e ampliato il bagaglio di prodotti. Alla linea d’arrivo, il cuoco si è presentato con la pasta di Gragnano, il capretto della Bisalta, il fegato grasso e la mozzarella di bufala, per citare solo alcuni dei suoi cavalli di battaglia. Mettere d’accordo una simile orchestra sarebbe stato difficile per chiunque; Cannavacciuolo ci è riuscito con il dono dei più grandi, cioè quello della misura e dell’equilibrio, che occulta l’opera dell’uomo e fa apparire semplici le cose più difficili. Colore campano e rigore piemontese hanno prodotto piatti che raccontano un sogno, l’ideale di un equilibrio rinascimentale in cui l’uomo ordina ogni cosa ma facendo apparire tutto come il frutto di uno spontaneo allinearsi e organizzarsi della natura. Eppure di casuale, nei suoi piatti, non c’è proprio niente: tempo e spazio vivono un solo istante di arbitrio, quello della creazione, ma si fissano poi nei gesti e nei procedimenti di un tecnicismo che ha il sapore di un gesto atletico. E dei maestri paesaggisti toscani il cuoco sembra coglierne il segreto: là i cipressi, le viti e gli ulivi sono piantati, cresciuti e potati per creare un’icona di benessere e armonia, qui le linguine si avvolgono in sinuosi rivoli intorno alle forchette, il plin sabaudo abbraccia i pomodori del Vesuvio, i pesci crudi e cotti nuotano nel piatto come in un acquario, il riso si fa dolce e freddo al latte di cocco. Ecco, la cucina di Cannavacciuolo non ama l’artificio, scaturisce da tradizioni e racconta una storia. In un’epoca votata alla globalizzazione e al rimescolio centrifugo delle carte, Antonino oppone la forza centripeta dell’identità, del genius loci. È la bellezza che trascende l’effimero e il contingente e costruisce l’eterno con lo stesso materiale di cui è fatto il provvisorio, il cibo, che diventa il marmo di un cuoco scultore.
Titolare e chef di Villa Crespi, 2 stelle Michelin, ha aperto anche Cannavacciuolo Bistrot a Novara e Torino, ottenendo altre 2 stelle Michelin nel 2019, una per bistrot.
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Maddalena Fossati Dondero, direttrice de La Cucina Italiana e Condé Nast Traveller, nonché promotrice della candidatura della cucina italiana a patrimonio immateriale Unesco