Un cuoco in India non vive una condizione privilegiata e, nel migliore dei casi, finisce in un gran calderone, dove persino un talento rischia di confondersi tra i tanti. Lo sa bene Himashu Saini che, oggi a 34 anni, non lavora a Delhi, né a Mumbai, ma negli Emirati Arabi, «perché in India ci sono già 100 mila cuochi e lui non voleva essere il centomillesimoeuno».
Ma ripercorriamo le sue tappe: nasce in uno dei quartieri più antichi di New Delhi tra street food, sapori intensi, colori e ritualità legate alla cucina che, sin da bambino, catturano i suoi sensi e il cuore. Seguono perciò gli studi nel mondo dell’ospitalità e, a 21 anni, fa il suo ingresso nella squadra dell’Indian Accent di New Delhi, l’insegna più celebrata a sud dell’Himalaya. Subito dopo, è la volta di Mumbai, al Masala Library, fino a una chiamata inattesa, una richiesta alla quale Himanshu non può dire di no: volare dritto a New York per lavorare in un ristorante di cucina indiana che, a posteriori, si rivelerà essere una delle esperienze più della sua vita; una parentesi di poca poesia, tanti coperti, una brigata esigua e decisamente troppi surgelati nel menu. Se non fosse che un’offerta pre-esistente, tira Saini fuori dal pantano, e dalla Big Apple, il cuoco indiano arriva nel cuore degli Emirati Arabi, a Dubai, dove ormai vive da quasi sei anni. Ed è intenzionato a restarci per ancora molti a venire.
È chiaro che l’opzione di tornare in India è fuori discussione, nonostante l’indugio dell’inesistenza della guida Michelin in terra araba; una congettura, ma non un freno per il cuoco che, oggi definisce la linea di cucina di 3 insegne: il Carnival, un fun dining nel distretto finanziario della città; il Trèsind, al secondo piano del Voco Hotel, macina circa 200 coperti a servizio, cucina indiana-ma-non-troppo, con tocchi scenografici e un servizio impeccabile. E non finisce qui, perché oltre una porticina in fondo al Trèsind, si schiude lo scrigno dei sogni di Himanshu, il Trèsind Studio. Un micro-spazio di circa 20 coperti dove Saini tesse la sua declinazione affatto stereotipata, ma raffinata di tutti quei piatti con i quali è cresciuto. La tradizione s’intreccia alle influenze raccolte e ricercate; emerge l’uso di nuovi ingredienti, oltre che un’attenzione sempre più delicata e sistematica verso l’universo vegetale, tanto da auspicare una totale conversione dalle proteine animali a sole verdure nel menu del domani. Infine, la sostituzione del sale con un impiego più sapiente delle spezie. In altre parole, una grammatica complessa resa semplice dalla sensibilità di Saini.