Apologia dell’allontanamento. Quello che ha portato Marco Ambrosino a mettersi alle spalle dapprima dalla sua Procida, e poi anche da Milano, la città dove è diventato uomo e chef al 28 Posti. Un luogo in cui ha messo a punto la sua cucina umana e sociale, ma da cui a un tratto ha sentito il bisogno di andare via per tornare alle sue radici, a Napoli, dove pure non aveva mai lavorato, nel ristorante all’interno della galleria Principe di Napoli, al primo piano dell’ex tesoreria del Banco di Napoli ed ex café chantant: sotto c’è il bar ScottoJonno, sopra c’è Sustanza, due espressioni della stessa persona. Qui lui sviluppa ora il suo pensiero colto e complesso, che parte dal Mediterraneo come nutrice e luogo di incontro e rigenerazione.
Di allontanamento c’è bisogno, secondo Ambrosino – e lo dice nel suo intervento domenicale sul main stage di Identità Golose 2025 – per comprendere le cose e rigenerarsi. Allontanarsi dai luoghi e dai tempi. Una forma di “anacronismo, ovvero provare a non occuparsi di quello che sta accadendo”. Una scelta faticosa perché «il nostro è un lavoro bellissimo, ma ha a che fare con una routine, con una ripetizione di gesti, ogni cosa è collegata a quella precedente». Il rischio è immergersi nella quotidianità perdendo di vista il quadro di insieme, è comportarsi come l’orchestrina del Titanic, che continua a suonare mentre la nave affonda. Poi arriva il cigno nero, in questo caso l’invito di Identità Golose, nella città in cui ha lavorato per molti anni, a parlare di futuro. «Mi avete costretto a riflettere, a cercare di immaginare che cosa succederà». E lo chef procidano individua due focus su cui lavorare: l’accesso diretto alle persone, in particolare a coloro che hanno sufficiente fiducia in uno chef da «ingoiare quello che gli diamo». E «moltiplicare i nostri messaggi, perché il direttore della Fao ha 40mila follower e Massimo Bottura milioni, e questo vuol dire che noi chef abbiamo un potere enorme».

Pasta in ammollo, colatura di melanzana, aceto di pasta, pesce azzurro, salsa di pane fermentato e olio di olive alla brace
Il futuro di
Ambrosino, non è una novità, è nel Mediterraneo, che lui ha quasi dovuto inventare «perché fino a qualche anno fa era inesistente, molti mi dicevano che era troppo vario per avere una sua identità e invece ha una sua identità proprio in quanto vario». Il presente è il piatto che lui porta sul palco milanese e che applica le regole della rivoluzione secondo
Ambrosino: «Non basta dire che tutto quello che c’è oggi non va bene, bisogna anche avere un obiettivo». In questo caso la scelta è usare in modo differente da quello a cui siamo abituati e quasi “maltrattare” un ingrediente comune, Sua Quotidianità la pasta.
Ambrosino prende un formato difficile, un fusillone, dalla struttura complessa, lo cuoce in brodo di lische di pesce azzurro per 24 ore, sfibrandolo del tutto, poi lo tiene in frigo a 3 gradi e lo rigenera cuocendolo per 12 minuti al vapore in modo che la pasta possa ritrovare la “memoria della sua forma”. Poi si occupa del pesce azzurro, alici trattate solo con sale e zucchero e dello sgombro che ha fatto tre giorni di salamoia con del tè, marinato nell’aceto di vino di pasta, ingrediente “inventato” dallo stesso chef.
E a proposito di ingredienti creati da
Ambrosino, ecco irrompere la colatura di melanzane. L’ortaggio, salato all’8 per cento, viene impastato, filtrato e il liquido che ne scende viene raccolto in un contenitore leggermente scolmo. Il risultato è un qualcosa il cui
cursus honorum è così riassunto da
Ambrosino: «Dopo 2 mesi era un veleno, dopo 12 mesi aveva un gusto affumicato, dopo due anni sembra Marsala». Un classico esempio di serendipità gastronomica, di lavoro sull’errore, in questo caso sull’ossidazione. Ed ecco il montaggio del piatto: sotto il pesce azzurro, sopra i due fusilloni, uno piastrato e uno in modo da far riflettere sulle diverse consistenze del morso, poi c’è la crema di pane servita tiepida, e anche questa è un’istigazione al pensiero, perché «il tiepido non fa parte del nostro orizzonte, noi pretendiamo il piatto caldo, ma proprio questo, l’errore, ci spinge a riflettere». Infine viene aggiunto un olio da olive cotte, come da tradizione palestinese, nel fuoco di fascina. Così il piatto trae la sua forza da pratiche ribalde, dal rovesciamento delle abitudini e delle visioni ma mantiene comunque il senso del gusto e del piacere. Perché, come diceva prima lo chef procidano, la rivoluzione fine a sé stessa non serve a nessuno.

Ambrosino con Marialuisa Iannuzzi e Federico Andreini
Ultime riflessioni sul Mediterraneo, luogo di accoglienza e di apertura. Quella apertura che ci deve spingere «a non prenderci la responsabilità storica di dire: qui non entra più niente». Una critica al sovranismo alimentare che governa l’Italia e che diventa negazionismo del fatto che, per dire, il pomodoro che è il simbolo della nostra alimentazione si è diffuso da noi solo nel Seicento. Cosa ci saremmo persi se all’epoca lo avessimo trattato come un cibo migrante da respingere sui barconi della Storia? Uno sviamento da questo punto di vista secondo chef
Ambrosino, a ciò sollecitato dalla brava
Marialuisa Iannuzzi, è stato anche parlare di Dieta Mediterranea, con la prima parola che confina il concetto nelle nostre dispense spingendoci a trascurare il patrimonio di culture, tradizioni e gesti che il Mediterraneo da mangiare custodisce. E non è un caso che la Dieta Mediterranea alla fine sia stata un’invenzione degli americani, che non si sono fatti le diete loro…