Roma kaputt mundi. Un po’ è il gusto del calembour che ci abita come un demonio, molto è la realtà. Nella città eterna il panorama della ristorazione internazionale è assai deludente, lontano assai dai fasti esponenziali di Milano, dove un giapponese è arrivato a meritare una stella Michelin e dove si corteggia l’avanguardia. Qui invece un’insegna (Hamasei) è da decenni considerato il migliore “nippodromo“ della capitale. Un inno all’affidabilità, ma ancor più una allarmante fotografia dell’immobilismo.
Pare di stare ancora nello scenario post-dolce vita tratteggiato nella imperdibile “Guida ai ristoranti di Roma” di tal Franco Simoncini, da noi scovata su una bancarella di volumi sottratti a chissà quale biblioteca. Era il 1971 e il Simoncini faceva notare come la città delle doppie ambasciate, delle accademie e dei floridi istituti culturali stranieri fosse poco o punto interessata alle “cucine forestiere”. Forse a causa della “soverchiante gagliardìa della cucina romana” che “tiene il campo con tanta sicurezza e mette in fuga tutte le altre, o le tollera appena ai margini del proprio regno”.

La grande sala dello Zen Sushi
Ora, non è che proprio siamo all’anno zero. La quantità di insegne si è centuplicata da quel 1971. I kebabbari spopolano, qualcuno riesce addirittura a scrivere correttamente falafel, certe diffidenze sono state annegate nelle salse allo yogurt (ma non piccante, grazie). Manca però un’idea guida, un’insegna top, uno chef illuminato che detti la linea e segni la strada. Ci si attenderebbe in particolare un guizzo in particolare dalla ricca schiera delle insegne di rito orientale, che vivacchiano di una tendenza elevata ad abitudine, di uno status da
nouveaux riches della gastronomia che inflaccidisce ogni velleità, senza sushi-tare grida di giubilo.
In questo panorama opaco spiccano per coerenza nella proposta il summentovato
Hamasei (via della Mercede 35/36), insegna quarantennale che non cede a compromessi;
Zen Sushi (via degli Scipioni, 243), che fu il primo a imporre a Roma il
Kaiten, qui detto inesorabilmente “trenino”;
Hasekura, altro brand storico affidabile ma senza guizzi; e va citato il piccolo impero di
Daruma, che mette in fila cinque ristoranti, tre indirizzi take-away e un affidabile servizio di “delivery”. E poi, per puro spirito compilativo:
Kenko,
Doozo,
Somo,
Sahura. Dobbiamo continuare?

Sonia, la titolare di Hang Zhou
Fa quasi impressione la disinvoltura dei romani con la cucina del Sol Levante. “Du’ sushi” hanno ormai quasi soppiantato i “du’ spaghi” nella frase introdotta dal “se famo”. Epperò dopo il Giappone c’è poco altro. La schiera dei cinesi sopravvive in un limbo tra oleografie pacchiane e sciatterie da rosticceria che pur lascia spazio a episodi notevoli come
Green T al Pantheon (via Pie’ di Marmo, 28), unico caso di “China chic”, con assortimento di tè ad accompagnare pietanze insolitamente sussiegose.
L’indirizzo più popolare resta
Hang Zhou (va Principe Eugenio, 82), che vive del carisma della titolare,
Sonia, abile nel gestire con polso fermo le lunghe file di clienti che pescano in un menu enciclopedico. Esempio di fusion asiatica è
Kuriya (via Arenula 48/49), che riassume la cucina di due miliardi di persone in un percorso nobilitato dalla freschezza degli ingredienti. E non è poco.
1. continua