“Difficile” è la parola che usiamo quando non sappiamo come reagire, quando cerchiamo una scusa, spesso caricandola di un’accezione negativa. È ciò che diciamo quando un piatto ci spiazza, quando un’esperienza ci sfugge di mano. Ma "difficile" è anche il termine che lo chef Matteo Fronduti utilizza per descrivere la sua cucina. Difficile perché spinge, strattona, provoca. Non è un invito cortese a tavola, ma un’imboscata. Il ristorante di Fronduti, Manna a Milano, non ti accarezza, ti confonde. Ti serve spaghetti in bianco a fine percorso come se fosse un dolce, ti rifila un gelato al cocco a metà strada come se fosse la cosa più normale del mondo. Ed è una porcheria, ed è sbagliato... Sì, ma solo se ci si ferma al primo livello di lettura. Perché il problema non è ciò che mangiamo, ma ciò che pensiamo di dover mangiare. E questo lo chef lo sa bene: il suo menu è una demolizione controllata del classicismo gastronomico, un attacco frontale al nostro bisogno di certezze a tavola.

Matteo Fronduti, classe 1980, chef e patron di Manna a Milano. Foto Maurizio Camagna
Scegliamo il menu
Porcherie, che già nel nome è una dichiarazione d’intenti. Otto portate di frattaglie, quinto quarto, interiora. Mammella, lampredotto, trippa, budello. Materie che fanno storcere il naso ai delicati, ma che parlano la lingua della cucina lombarda. E, anche se a lui non interessa pubblicizzarlo, parlano pure di sostenibilità e di spreco zero. Un menu povero, reso nobile da incursioni marine: capesante, ostriche e scampi. Un percorso imparagonabile e unico nel suo genere.
Ma abbiamo mangiato bene? La domanda che rimbomba in testa per giorni, senza trovare una risposta univoca. Ogni volta ci fa questo effetto. Perché ogni piatto di Manna è un errore voluto. Contrasti che fanno a botte: le sarde con il fegato sono un pugno in piena bocca, troppo amare. La trippa con sugo di scoglio e bergamotto piccante ti fa sudare nel senso letterale della parola. E il gelato al cocco con gli scampi crudi non è un dessert, ma il suo antidoto.

Carpaccio di mammella, molluschi e limoni bruciati

Lumache, capesante, bianchetto di funghi e tartufo nero

Trippa nido d’ape e zuppa di scoglio
Ogni boccone è uno scossone, ogni passaggio è una destabilizzazione sensoriale. Il piccante è tanto piccante, l’amaro è tanto amaro, l’acido è tanto acido. Nessuna sfumatura rassicurante, solo estremi.
E poi c’è lo Spaghetto in bianco. Il colpo di scena finale, l’anti-climax perfetto. Dopo un percorso di sovraccarico sensoriale, il minimalismo assoluto. Nessun fuoco d’artificio, solo pasta, burro, Parmigiano. Come il silenzio dopo il caos. Qualcuno si sentirà tradito, altri sollevati. Noi? Ci siamo divertiti. Perché il dolce finale non è una necessità, ma un’abitudine. E dopo aver attraversato il delirio gastronomico, l’unica chiusura possibile è tornare all’essenziale. A quel punto, però, avremmo mangiato anche un Sorbetto al midollo con crumble di cotenna croccante. Ecco, forse proprio questo croccante è mancato. Le frattaglie hanno una consistenza particolare, vero, ma nel complesso il menu è risultato un po' piatto sotto questo aspetto.

Lampredotto e lardo di seppia

Budellino di agnello, merluzzo e cipollotto
Manna non è per tutti. E non vuole esserlo. Qui si gioca sporco, si ride sotto i baffi mentre il cliente cerca disperatamente di trovare un filo logico. La sala è perfetta, ma volutamente priva di storytelling, il che non aiuta il commensale. Così qualcuno decide di non tornare. O magari sì. Perché, alla fine, il cibo non è solo nutrimento: è anche fastidio, dubbio, stimolo. E questo,
Matteo Fronduti lo ha capito.