Il foraging, almeno su queste pagine, non è certamente più un tema poco noto, che richieda introduzioni e spiegazioni particolari. Certo, in questi anni è diventata una parola di tendenza, di moda, ma non dobbiamo dimenticarci che la raccolta di erbe spontanee e selvatiche per l'alimentazione umana è una pratica antica e radicata, in Italia come in tutto il mondo, che possiamo anche chiamare alimurgia.
Alcuni dei più importanti ristoranti del mondo da diversi anni stanno ampliando sempre di più il proprio interesse per queste pratiche e questi ingredienti: uno di questi è il Mirazur di Mentone, con il suo chef Mauro Colagreco impegnato con grande entusiasmo a esplorare con i suoi menu le fasi del calendario biodinamico, che regolano da tempo anche i lavori negli orti e nei giardini del Mirazur, così come ci ha raccontato molto bene, già nel 2020, Giovanna Abrami in questo articolo.
Recentemente, a margine della recente nuova edizione del Festival del Recupero, meritoria iniziativa dedicata ai temi della cucina circolare e della sostenibilità organizzata dall'associazione Tempi di Recupero a Pianetto di Galeata (Forlì-Cesena), abbiamo avuto modo di incontrare il responsabile del foraging e componente del Centro Ricerca e Sviluppo del tristellato ristorante in Costa Azzurra, che è, come una porzione rilevante di quella brigata, italiano. Si chiama Alessandro Di Tizio, abruzzese, classe 1986. Di lui avevamo scritto su queste pagine nel 2018, quando collaborava anche con i due chef di Retrobottega.

Per l'edizione 2024 del Festival del Recupero, Alessandro Di Tizio ha condotto alcuni partecipanti in un'esplorazione di foraging nelle zone intorno a Pianetto di Galeata
Ma come si diventa forager per
Mauro Colagreco? Vale la pena di raccontare questa storia partendo da un poco più indietro nel tempo, e da un luogo centrale per lo studio e la divulgazione della cultura gastronomica nel nostro paese, l'Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo.
«Quando sono uscito dal liceo - ci spiega Di Tizio - ero indeciso se iscrivermi a filosofia o fare il cuoco, due strade piuttosto diverse tra loro. L'università di Pollenzo era stata fondata l'anno prima e quando ne ho scoperto l'esistenza ho capito di aver trovato forse l’unico posto al mondo dove il cibo e la cucina vengono analizzati anche da un punto di vista filosofico. E quindi ho trovato lì la mia strada all'interno delle scienze gastronomiche, in particolare grazie al corso di Etnobotanica di Andrea Pieroni. Fin dalla prima lezione mi è stato chiaro che c'era qualcosa per me: Pieroni entrò in classe e disse: "Ok, adesso tutti fuori." Siamo usciti e abbiamo cominciato a strappare foglie dalle siepi, non da piante selvatiche di chissà quale bosco selvaggio: la siepe che stava fuori dall'aula. Il lauroceraso è una pianta tossica usata per scopi ornamentali, ma in verità l'industria alimentare la usa per estrarre l'aroma di mandorla, che però emerge soltanto con il calore. La foglia rotta non odora di niente, se scaldata e sfregata tra le mani, tira fuori questo odore di mandorle amare. Quella cosa lì a me ha cambiato la vita».
Dopo Pollenzo, hai frequentato anche l'Accademia di Niko Romito, vero?
Sì, a Castel di Sangro ho studiato le basi della cucina italiana, seguendo il corso guidato dallo chef Davide Mazza. La parte sul foraging era affidata allo stesso Pieroni, che già era stato mio docente: quella è stata per me un'occasione quindi per mettere a frutto le competenze che avevo già maturato con lui, parlando con Niko Romito e arrivando a proporgli di condurre una ricerca sulle piante che crescevano nella zona intorno al ristorante, mappando la stagionalità e i luoghi di raccolta. Quello è stato il primo vero lavoro in cui ho potuto unire le mie conoscenze su piante ed erbe e l’alta cucina.
Come descriveresti invece il percorso che ti ha portato fino a Mentone?
Luca Mattioli, oggi executive chef del Mirazur, venne a sapere del mio lavoro perché aveva mangiato in un ristorante che rifornivo con la mia raccolta di erbe. E' rimasto colpito dalla qualità del mio lavoro e quando ci siamo incontrati, mesi dopo, si è ricordato di me e mi ha detto subito che dovevamo lavorare insieme. Poi ne ho parlato ancora con Andrea Pieroni, che considero davvero il mio mentore, che conosceva quella realtà e mi ha confermato che potesse essere il posto giusto dove fare esperienza, dove approfondire il tema delle erbe selvatiche. Quando ho incontrato Colagreco, ci siamo parlati per quindici minuti e mi ha detto subito che voleva partire con questa collaborazione.
Che aspettative avevi entrando nel team di quello che veniva definito il miglior ristorante del mondo?
Ero convinto che fosse il luogo giusto per me, in cui ritrovare i temi che per me sono centrali: la sostenibilità, la dieta mediterranea, il ritorno alla raccolta di erbe selvatiche. Mi aspettavo il
Mirazur potesse rappresentare il canale migliore attraverso cui diffondere in maniera veloce, e a livello mondiale, queste tematiche, questa necessità di una rivoluzione: perché alla fine è di questo che si parla.
La necessità di una rivoluzione: sono parole molto interessanti. Vuoi spiegare meglio cosa intendi?
Che c'è bisogno di cambiare il sistema alimentare, di cambiare la percezione che le persone hanno di cosa sia un cibo salutare e buono. E in tutto questo c'entra molto il nostro rapporto con l'ambiente naturale, quindi con le piante. In questo senso oggi raccogliere erbe selvatiche, per quanto sia l'attività più vecchia che l'umanità abbia mai compiuto, è un atto rivoluzionario. E' molto interessante farla questa cosa rivoluzionaria, ma trovo ancora più significativa la riflessione ulteriore, cioè il fatto che una cosa che dovrebbe essere normale, e che fa parte della nostra storia da sempre, invece appare rivoluzionaria: ci fa capire quanto siamo distanti da un sano rapporto col cibo, con la natura, con le piante.
Le tue aspettative sul lavoro con Colagreco sono state soddisfatte?
Sì, assolutamente. L'attenzione alla sostenibilità è al centro dell'identità del Mirazur: parliamo chiaramente di una macchina molto grande, quindi serve del tempo per dare a questo lavoro la giusta articolazione, ma posso dire che nei prossimi mesi prenderà forma un progetto, che ora non posso anticipare, che credo potrà essere molto interessante.
In cosa consiste oggi la quotidianità del tuo lavoro al Mirazur?
Mi occupo della raccolta delle erbe selvatiche per ciò di cui il ristorante ha bisogno ogni giorno, quindi almeno una volta a settimana, ma a volte sono cinque, dipende dal periodo e dal menu, vado a raccogliere le erbe per la cucina. A volte lo faccio da solo, a volte lo faccio con qualcuno della brigata o qualcuno del giardino che mi viene ad aiutare. Poi mi occupo di portare avanti alcune attività di ricerca, perché il foraging non riguarda semplicemente la raccolta, ma bisogna anche studiare, esplorare, fare sopralluoghi sul territorio e capire qual è il momento migliore per raccogliere ciascuna erba. E' una cosa che si fa con una certa regolarità, una volta a stagione si dedicano delle giornate a fare questo. Mi occupo anche di fare ricerca sui prodotti e sui produttori, stringendo rapporti di fiducia personali, che è un passaggio molto importante, e fornendo alla cucina schede in cui trovare velocemente tutte le informazioni riguardo ai prodotti.

Quanto cambia fare forgaging nelle zone dove si trova il Mirazur e, ad esempio, in Abruzzo?
Cambia ma non così tanto, la flora rimane tipicamente mediterranea. Possono cambiare degli aspetti, alcuni dettagli di crescita di alcune piante, che però rimangono riconoscibili a un occhio anche solo semi-esperto. Diciamo che gran parte della flora, soprattutto quella di prossimità, quella che cresce vicino al mare, rimane piuttosto simile, perché il clima mediterraneo tende a renderla omogenea. Nei boschi in alta montagna invece ci sono parecchie differenze. In Abruzzo ci sono molti microclimi diversi, dunque ci sono dei luoghi in cui la flora è molto simile a quella della Costa Azzurra, mentre altre zone sono completamente diverse.
Ci sono degli ingredienti, selvatici o meno, che hai procurato per la cucina del Mirazur, che ti hanno reso particolarmente fiero?
Sì. In questi giorni, per esempio, stiamo utilizzando i fagioli di Villatella, che in verità si chiamano fagioli del Grammondo, che è la montagna che si trova lì, al confine tra la Francia e l'Italia, alle spalle di Villatella. Mi piace chiamarlo fagiolo di Villatella perché è stato salvato da una signora di quel paese, durante la seconda guerra mondiale. Lei scappò durante lo sfollamento che c'era lì sul confine, era una zona di guerra importante, e un anno dopo, al suo ritorno, ha ritrovato i suoi fagioli: li aveva nascosti nel fienile, sotto terra. Così ha ricominciato a coltivarli, li ha regalati ad altri che vivevano in paese: noi oggi li compriamo dal nipote, che li coltiva sugli stessi terreni di sua nonna. E' una varietà di fagioli bianchi, davvero eccezionali, assomigliano un po' ai fagioli Pigna che si coltivano sempre in zona. Per me è soprattutto un prodotto la cui storia ci fa capire come il cibo a volte sia molto di più di qualcosa che si mangia, ma racconta la storia, la vita, l'economia, le persone, i territori.
Te ne viene in mente anche uno selvatico?
Mi viene in mente un prodotto che è ancora in fase di ricerca e sviluppo, non si trova in nessun menu, però secondo me abbiamo creato qualcosa di davvero buono. Mauro deve ancora assaggiarlo: è una specie di vino che abbiamo ottenuto facendo fermentare il succo delle prugne selvatiche, tante differenti prugne selvatiche: abbiamo spremuto, abbiamo fatto il mosto e le abbiamo fermentate. Fermentazione spontanea ovviamente, in una damigiana di vetro. Il risultato finale per me è incredibilmente buono e ne vado particolarmente fiero.
Vorrei tornare a un concetto che hai espresso precedentemente: credi che l'alta cucina possa essere ancora oggi un veicolo efficace per promuovere certi messaggi di cambiamento e di progresso?
Credo di sì, ma dobbiamo anche dire che non si tratta di cambiamenti immediati, serve tempo. Credo che l'influenza dei cuochi, e dell'alta cucina, ci sia ancora oggi così come c'è stata nel passato, ma il progresso richiede tempi lunghi per diventare concreto. Oggi credo che il luogo della cucina tradizionale, a parte qualche eccezione, siano i ristoranti, non più le case in cui cucinavano le mamme e le nonne. I ristoranti, le trattorie, sono quei luoghi dove riusciamo a preservare certe preparazioni tradizionali, magari molto elaborate, lunghe, che quindi non abbiamo più tempo di realizzare a casa. E quindi le cucine, i cuochi, e anche l'alta cucina, possono essere fondamentali per preservare certe tradizioni. Parlando di questo aspetto, è evidente che nelle trattorie e nelle osterie è più semplice che accada, perché non c'è l'esigenza di stupire il cliente con effetti speciali. Invece nell'alta cucina di oggi c'è questa tensione tra la volontà di usare prodotti locali, di essere sostenibili, di recuperare usi e ingredienti perduti, e la volontà di fare qualcosa di stupefacente. Secondo me le due anime possono e devono convivere nell'alta cucina contemporanea, ma non tutti la pensano così. Per me il vero atto di rottura è far capire alle persone che oggi il lusso è mangiare il fagiolo di Villatella, non il foie gras o una verdura neozelandese che arriva fresca e perfetta fino in Europa. E' questo il lusso perché di fatto è la cosa più rara: è più facile far arrivare un pomodoro dalla Nuova Zelanda che mangiare il fagiolo di Villatella. Solo che un'evoluzione culturale come questa non è facile, né immediata.