Per decenni è stata considerata come la città dall’identità smarrita, il luogo di passaggio nel viaggio dal Continente alla Sicilia, con poco da raccontare o da offrire ai viaggiatori. Oggi Messina, nella punta nord orientale della Sicilia, prova a riprendersi il suo spazio nella mappa gastronomica dell’Isola facendo scoprire tutta la bellezza e la ricchezza del suo territorio.
Stretta tra le coste ionica e tirrenica e i monti Peloritani, l’odierna Zancle può vantare, infatti, un patrimonio culinario e dolciario sul quale si sta finalmente puntando per il rilancio anche turistico della città, complici un’amministrazione comunale illuminata e chef e pasticceri che da anni portano alto il vessillo locale.
Dallo street food al fine dining, passando per i piatti classici e i dolci tipici, si scopre una Messina ricca di tradizioni culinarie, molte delle quali legate al suo essere una città profondamente marittima. Non a caso pesce spada, pescestocco e cozze fanno parte del ricco menu locale. Il pesce spada viene pescato con le feluche, le tipiche imbarcazioni, nel periodo della riproduzione che nello Stretto va da maggio ad agosto, quando i pesci si avvicinano alla costa. Viene consumato, perlopiù, tagliato a fette e arrostito o trasformato in involtino.
Il pescestocco, invece, è un’eredità lasciata a Messina dai marinai norvegesi durante la sosta nel porto della città, un tempo uno dei più importanti del Mediterraneo. Era una sorta di moneta di scambio che i messinesi cucinavano a ghiotta, ovvero unendo al pesce patate, cipolla, sedano, olive in salamoia, olio, capperi ed estratto di pomodoro. Il pescestocco a ghiotta è, ancora oggi, uno dei piatti tipici della gastronomia messinese che in tanti stanno riscoprendo e proponendo in menu. Ottimo, ad esempio, quello preparato dallo chef del Marina del Nettuno Yachting Club, Pasquale Caliri. «Della nostra tradizione fanno parte anche piatti quasi dimenticati come lo sciusceddu, una sorta di soufflé con le polpette all’interno che si preparava nel periodo di Pasqua - racconta lo chef – o il macco di fave con finocchietto».
Tra i fiori all’occhiello della città c’è senza dubbio la molluschicoltura. Due anni fa si è costituito il Consorzio tra i produttori e oggi una sessantina di famiglie vive allevando molluschi nei laghi di Ganzirri e Torre Faro, nella punta estrema a nord est della città. Il primo, con suo fondale di 8 metri, è più adatto all’allevamento delle vongole mentre il secondo, la cui profondità arriva a quaranta metri, ospita le cozze. «Stiamo completando l’iter per ottenere l’igp, l’indicazione geografica protetta, per la cozza di Messina», racconta Sara Arena, vice presidente del Consorzio.


Il pescestocco a ghiotta di Pasquale Caliri
«Il nostro è un prodotto speciale grazie alle caratteristiche dell’acqua in cui viene immerso e allevato e alla lavorazione che prevede un affinamento che va da tre a sette mesi – spiega -. A Torre Faro, infatti, confluiscono le acque di due mari e la salinità di questo bacino è molto spiccata, conferendo al prodotto un gusto caratteristico: sono buone, succulente e saporite». Oggi le cozze di Messina hanno un loro mercato in espansione e nelle acque di Torre Faro, ricche di flora e fauna e nelle quali ogni tre settimane vengono effettuati controlli, si fanno anche esperimenti finanziati dall’Unione europea su reti biodegradabili per ridurre ancora l’impatto ambientale.
Ma non di solo pesce vive Messina. Questa, infatti, è anche la città delle
braciole, piccoli involtini di carne, riempiti con una farcia di mollica di pane, prezzemolo, olio, sale e pepe e formaggio e poi arrotolati e cotti al forno o alla brace. L’amministrazione comunale ha avviato le procedure per ottenere la De.Co., Denominazione Comunale di Origine, per le braciole messinesi delle quali, oggi, esistono numerose varianti di ripieno. Quelle tradizionali, però, sono sempre le più richieste e la versione mignon è anche servita come aperitivo.
Pure il cibo da strada, nella Città dello Stretto, vanta una lunga tradizione, con preparazioni diventate ormai iconiche come il pitone, una sorta di calzone fritto ripieno di tuma, scarola, pomodoro e acciughe e la focaccia, una pizza in teglia farcita, anch’essa con tuma, scarola, pomodorini e acciughe. Celebri quelle di
Tommaso Cannata,
Natale Laganà e
Francesco Arena, fornai messinesi che da anni fanno conoscere questi e altri prodotti tipici in giro per il mondo.
«Focaccia e
pitoni (o
pidoni) sono i due must dello street food messinese che hanno origini antiche e una valenza storica – racconta Francesco Arena, tra i più blasonati panificatori della città -. Entrambi nascono dalla tradizione della cucina povera e rappresentano ancora oggi i cibi più amati perché sono legati a feste e ricorrenze e ai momenti di convivialità. Non c’è partita di calcio e della Nazionale che a Messina non venga accompagnata da queste specialità. Per i messinesi rappresentano anche il cibo dello stare insieme quando si cucina, con la divisione dei compiti: chi stende, chi taglia i pomodori e il formaggio, chi farcisce, chi frigge. I pitoni in particolare, uguali nel ripieno alla focaccia, nascono per l’esigenza dei pescatori di portare in barca un cibo di facile consumo. Il pitone, essendo chiuso a mezzaluna, permetteva di non perdere il tradizionale ripieno. Per questo venivano preparati dalle mogli dei pescatori che potevano garantire ai mariti un pasto ricco e nutriente e allo stesso tempo facile e pratico da consumare».
Quello messinese è un territorio importante anche per il vino. Qui, infatti, si incontrano tre denominazioni di origine: la doc Faro sui Monti Peloritani, Mamertino sulla costa ionica e tirrenica e Malvasia delle Lipari nell’arcipelago delle Eolie e sono numerose le cantine che producono vini d’eccellenza.

Pasquale Caliri, Lillo Freni e Francesco Arena
E poi ci sono i dolci, tanti, ricchi e, esempio unico in Sicilia, caratterizzati da creme burrose e gianduia, eredità lasciata in città dai Savoia. La
pignolata è certamente il dolce più conosciuto, preparato con tocchetti di pasta biscotto fritti nello strutto e poi glassati per metà con una meringata al limone e per la restante parte con glassa gianduia. Segue il
Bianco e nero, una sorta di profiterole con bignè ripieni di panna e copertura anche in questo caso al gianduia; i
lulù, fatti con pasta bignè e farciti con gianduia o crema al burro. Ricco anche il parterre dei biscotti: ‘
nzuddi con mandorle e arance;
piparelli, una sorta di cantuccio aromatizzato con buccia d’arancia, chiodi di garofano e cannella; ossa di cedro, un tempo preparati per la festività dei defunti e oggi reperibili tutto l’anno nelle pasticcerie più fornite, fatte con pasta di mandorla e cedro candito all’interno.
Infine gelati e granite. Celebri in città quelle di
Giuseppe Arena per l’equilibrio di frutta e zuccheri. Ma la sua gelateria affacciata sul lago di Ganzirri, merita una visita soprattutto per il gelato
Gianduja di Capo Peloro, un gusto ricco e cremoso «nato da una ricetta ereditata da mio nonno – dice il gelatiere – creata quando nelle gelateria non si usavano preparati e tutto veniva bilanciato artigianalmente». L’identità di Messina è tutt’altro che smarrita e la ricca tradizione culinaria locale, dal salato al dolce, val bene una sosta.