Livigno, il piccolo Tibet italiano. Porta d’accesso al Cantone dei Grigioni attraverso la Forcola. E, insieme, tutte le valli della Valtellina: la Valchiavenna, la Valgerola, la Valfurva, la Valdidentro, la Valdisotto e la Valmalenco. Che come tutti i territori montani di confine rischiano l’abbandono da parte dei giovani. Ne sa qualcosa Alessandro Negrini che in Valmalenco, a Caspoggio, è nato nel 1978, e prima di fermarsi definitivamente a Milano ha fatto la spola tra Italia e Svizzera dove ha lavorato all’Hotel Palace a St. Moritz e al Domaine de Châteauvieux a Ginevra. Lo chef bistellato de Il Luogo di Aimo e Nadia che ha studiato alla scuola alberghiera di Sondrio, oggi, è uno dei più strenui sostenitori delle Valtellina. «C’è la necessità che queste valli non si svuotino. L’idea di andare a vivere in città è magnifica ma il benessere, sia in termini di qualità della vita che di ambiente, è molto più facile trovarlo in montagna. Questo vale anche per i professionisti della cucina, a patto che sia legato all’aumento delle possibilità lavorative», riflette Negrini.

Alessandro Negrini, il primo a destra, mentre prepara un piatto col borsat in occasione dell'ultima edizione di Sunrise Mattias
Il tema messo sul tavolo dallo chef valtellinese è quello della cucina italiana di confine. Sottolinea: «Riscoprire le origini e i cibi che sono stati quasi completamente dimenticati può essere un modo di riaffermare l’identità e creare un movimento che faccia crescere identità e orgoglio». Un orgoglio che lui stesso riafferma con decisione impegnandosi in prima persona in una “mission” possibile: far conoscere il
borsat, un piatto di carne di pecora che affonda le radici nel passato.
Negrini ha inserito il borsat in un menu degustazione realizzato per Identità Golose Milano in collaborazione con Regione Lombardia e Ascovilo - Associazione Consorzi Tutela Vini Lombardi e lo ha presentato a la Sc'còla da cośgína (giornata di formazione dedicata a 120 studenti delle scuole alberghiere superiori della Lombardia e del Trentino Alto-Adige in occasione della sesta edizione di Sunrise Mattias, rassegna in ricordo dello chef livignasco Mattias Peri scomparso nel 2015), per poi portarlo in tavola nella cena di gala dello stesso evento.

Le fasi di preparazione del borsat
A raccontarci il
borsat è la signora
Menia, al secolo
Maria Domenica Silvestri, classe 1944, valtellinese di Trepalle, frazione a pochi chilometri da Livigno. «Il
borsat è una sacca di vello di pecora ricavata dal sottocollo e dalla spalla dell’animale, farcita con pezzi di carne della stessa pecora e aromi e chiusa con cucitura. I
borsat si preparano al ritorno del gregge dall’alpeggio e per ogni animale se ne possono ottenere una quindicina», spiega
Menia, fino a poco tempo fa unica depositaria dei segreti di questo piatto poverissimo che adesso sta tramandando a
Francesca Peri, sorella dello chef che aveva portato la stella Michelin a Livigno. Per quanto riguarda la cottura, «si comincia col mettere il borsat sulla brace per bruciare tutti i peli, poi si spazzola vigorosamente sotto l’acqua corrente per eliminare ogni residuo di brace e di peli, infine va messo a bollire per almeno 8 ore a fuoco molto lento».

La signora Menia con Davide Rampello, che è andato a trovarla per una puntata della sua rubrica Paesi, paesaggi... su Striscia la notizia, guarda qui il video
Il
borsat, che si serve tagliato a fette, «può servire a ricostruire le origini della cultura gastronomica della Valtellina. Prima si preparava solo in casa, adesso qualche ristoratore comincia a interessarsi», osserva ancora
Negrini che servendolo con crema di “
furmentun” (una polenta di grano saraceno) e pestèda di Grosio, un battuto di aglio, sale, pepe, foglie di achillea nana e timo serpillo tipico della cucina grosina, ha dimostrato come anche il
borsat possa diventare elemento di piatti di fine dining.

Borsat con crema di furmentun (una polenta di grano saraceno) e pestèda di Grosio, un battuto di aglio, sale, pepe, foglie di achillea nana e timo serpillo tipico della cucina grosina
Afferma
Negrini: «Analizzando e riscoprendo le tradizioni gastronomiche valtellinesi che vanno oltre pizzoccheri, bresaola e sciatt, si può creare turismo. Oltre al
borsat, per esempio, c’è la
fughiascia di Gordona, che cuoce sulla pietra. Sono convinto che la Valtellina possa ancora dare tanto. Che ci siano margini di miglioramento lo dimostra il lavoro di alcuni giovani che, a livello gastronomico, stanno portando avanti il territorio in maniera eccellente. Parlo di
Orterie a Villa di Tirano e
Trippi a Montagna in Valtellina che cominciano ad accostare i loro nomi a insegne come
La Fiorida, la
Lanterna Verde e
Il Cantinone». Tirando le somme, conclude
Negrini, «i territori si modificano con le persone e servono i giovani che li prendono in mano. Senza una rivalorizzazione dei confini, la gente o va di là in Svizzera o va via…».