Dio è morto, scriveva Nietzsche, segnalando l’abbandono di ogni valore dalla fede. Ripresa da Francesco Guccini, “Nella mia generazione che ormai non crede”. Con un volo pindarico viene da pensare al fine dining: anch’esso è morto ai bordi dei ristoranti?
Germogliano le analisi, si sviscerano dati, si avanzano ipotesi e congetture sul fenomeno che pare vacillare, se non crollare colpito al tallone come il prode Achille. Quale futuro si attenda sulle tovaglie di tutto il mondo, è l’interrogativo che rimbalza tra le giubbe bianche.
Ed è già un buon inizio. L’interrogarsi su come, quando e dove andremo a parare è cosa buona e giusta in qualunque settore. Travolti dall’ignoto, la pena è la soccombenza. Se è vero che il fine dining è stato ed è fenomeno di costume, è dai costumi che occorre non solo partire ma ri-pensare.
Può un fenomeno come quello della cucina raffinata resistere a un tessuto che, via via, cede proprio su questa base? E’ come il “bello scrivere”, si diceva un tempo nei giornali, adesso sempre più sopraffatto da un cattivo esporsi non solo sui social, sui giornali, ma spesso ovunque si batta frasi su una tastiera.
Non stiamo sorvolando, ma è calzante. Come far resistere i paradigmi del fine dining in una società che li va scardinando dalle fondamenta? “Una società crolla se cadono i suoi valori”, scriveva Umberto Galimberti riferendosi in primis all’impero romano. Valore, quindi, come base e perimetro di ogni costruzione, cucina raffinata compresa.
Ma valore può essere parola vana, sensuale forse, ma anche ipocrita se non evanescente, se mal spesa o immolata al marketing di turno. “Considero valore”, bellissima poesia di Erri De Luca, concludeva: “Molti di questi valori non ho conosciuto”. Dalla poesia alla prosa: consideriamo valore nominare a cantilena la solita solfa della cucina della nonna, del chilometro zero, della materia prima, e via via con altre ovvietà dietro il mestolo?
O ripartiamo dal valore del fattore umano inteso come ralazione tra lavoratori innanzitutto e come rapporto ristoratore - ospite, che non sia produttore - cliente? In gioco è un altro valore, che fu italico: quello del bello.
“Il bello è anche buono”, amava ribadire Gualtiero Marchesi. Ma è il bello a essere non solo maltrattato, ma attaccato da una generazione x che spinge in un senso, ed una boomer che spinge nell’altro.
E’ l’epoca del “Potevo farlo anch’io”, da tiktok alle storie su Instagram, ai migliaia di blogger che propinano ogni deformazione plausibile e possibile del buon cucinare. Ne possiamo uscire indenni come Sant’Antonio nel rovo di spine. Mettici pure che siamo tutti Lucio Fontana perché tutti sappiamo squarciare una tela, siamo tutti fine dining perché sappiamo copiare una salsa. Uno squarcio che sa di deriva.