Antonio Bufi è tornato. Ma forse non se n’è mai andato, per chi lo conosce bene e ha seguito il suo percorso negli ultimi anni. Ha solo fatto un passo di lato, quasi a voler schivare il flusso (anche mediatico), prendere fiato e riordinare le idee. Alla ricerca di una nuova condizione, umana e professionale, attraverso la quale poter esprimere la sua geniale irrequietezza, il suo desiderio di ricerca quasi maniacale di ingredienti locali e la sua volontà mai doma di mettere insieme, in maniera anche ardita, il noto e l’ignoto gustativo.
Breve è la distanza tra la sua Puglia – nella quale era rientrato una decina di anni fa, dopo esperienze in Italia e all’estero (Gualtiero Marchesi, Michel Roux, Moreno Cedroni) per amore di Lucia Della Guardia, compagna di vita e sua musa ispiratrice, fermandosi a Bari, prima da Eataly poi a Le Giare per regalarsi e regalare il suo periodo più libero e bello – e Matera, dove lo ritroviamo più pimpante che mai.
La Capitale Europea della Cultura 2019, dopo la inevitabile flessione dovuta alla pandemia, è tornata ad essere frequentata dai turisti, sebbene in una dimensione più tranquilla, ed inevitabile è stata la selezione naturale di osterie, bistrot e ristoranti che ha mantenuto i più bravi, come Vitantonio Lombardo, Dimora Ulmo, Ego Gourmet per citarne alcuni. E come La Gattabuia, che c’era già, essendo nata nel 2012 per il pensiero e la mano di due giovani appassionati di cibo e vino, cultori del territorio lucano – i cugini Giuseppe Martelli e Stefano Tricarico – inizialmente affiancati dal professor Francesco Linzalone già fiduciario Slow Food della zona. È una bella osteria moderna, scavata nel tufo e ricavata nei locali che tra il XVII e XVIII secolo ospitavano le carceri cittadine; si è subito distinta per coerenza e costanza nella qualità delle proposte, uno stile al contempo professionale e scanzonato.

Da sinistra, Giuseppe Martelli e Stefano Tricarico
Con l’esperienza è cresciuto anche il desiderio di spostare l’asticella più in alto, non tanto e non solo nella forma e nel servizio, quanto nei contenuti. Così agli inizi di quest’anno in cucina è arrivato appunto
Antonio Bufi, classe 1973, uno che a vederlo è una via di mezzo tra
San Francesco e
Che Guevara, tanto amorevole genio e qualche sregolatezza. E se, come diceva
Vinicius de Moraes, «…
la vita è l’arte dell’incontro», è altrettanto vero che nella maturità c’è più consapevolezza e si è maggiormente capaci di riconoscere il valore intrinseco delle cose che accadono. Una scelta sicuramente
disruptive e coraggiosa che coglie il senso del pensiero evoluto che
Giuseppe e
Stefano stavano sperimentando anche nelle preferenze dei vini e che si rivela coerente con la filosofia di cucina di
Antonio, chef che negli anni è stato definito anarchico, rivoluzionario,
unconventional, sovversivo.
Ci dice: «Sono oggi quello che sono stato, anche con le mie posizioni estreme. A casa leggevamo molto, c’è sempre stata in tutti noi passione per la musica e per la cucina. Mia madre mi metteva a sgranare fagioli e a pulire gli ortaggi e la frutta che sceglievamo dai contadini al mercato di quartiere e mi permetteva di assistere alle sue preparazioni seduto sulla lavatrice. Un imprinting, quello vegetale, inevitabile per chi nasce al Sud e in Puglia, con tutto il bendidio di biodiversità che ci circonda. E che mi ha sempre accompagnato quando ho iniziato nel 1989 con i miei primi maestri
Salvatore Bufi a Molfetta e
Pippo Todisco al
Majestic di Roma, e poi in Francia dove ho imparato le basi della cucina classica e in Oriente dove ho affinato la sensibilità per le materie prime. Ho avuto la fortuna di vivere in questi anni il percorso della cucina moderna e contemporanea che mi ha insegnato una cosa fondamentale: che un cuoco può ispirarsi ai suoi maestri nelle tecniche e nel metodo ma deve trovare e perseguire le proprie idee, anche a rischio di non essere subito compreso. Certe scelte mi hanno regalato grandi soddisfazioni ma anche qualche complicazione».
Bufi da decenni lavora su fermentazioni, macerazioni, germinazioni e disidratazioni degli alimenti («Cosa che in maniera forse empirica si fa da sempre nelle nostre case per conservare i prodotti di stagione ma che ho sempre studiato nella loro chimica e sperimentato a fondo nella loro evoluzione»); tecniche diventate la cifra distintiva della sua cucina. Che non è mai stata egocentrica, semmai eccentrica e per questo originale e dotata di una certa complessità, sempre alimentata dall’esplorazione mai doma di ingredienti spontanei o prodotti di piccole aziende locali, con la stessa portata può mutare impercettibilmente anche nello stesso periodo, essendo ortaggi, verdure, erbe e spezie mutevoli nella loro disponibilità stagionale.

Spaghetti al pomodoro Roma, rafano fresco e taleggio di capra
Nella carta e nei tre menu degustazione (da 3, 4 e 7 portate, da 48, 60 e 75 euro) troviamo piatti talvolta di lettura immediata, come per gli
Spaghetti al pomodoro Roma, rafano fresco e taleggio di capra o per la
Punta di petto di vitello, carote e zenzero, yogurt di capra e agretti in scapece; tal’altra più complessi e spiazzanti. «Come alcuni grandi componimenti musicali – spiega lo chef – alcune preparazioni sono il risultato di stratificazioni di stili diversi… Ad esempio hai mai sentito quando il jazz incontra il punk?».

Ombrina rossa del Gargano con taccole al burro di cacao, salsa verde di spinaci e semi di chia

Tortello ripieno di gallina e batata, bisque di crostacei e olio verde
Così
Bufi è bravo a mettere insieme prodotti di mare e di terra come con l’
Ombrina rossa del Gargano con taccole al burro di cacao, salsa verde di spinaci e semi di chia o il
Tortello ripieno di gallina e batata, bisque di crostacei e olio verde; a interpretare il territorio da par suo con l’
Agnello, fave fresche, piselli, tuorlo d’uovo marinato, crema di cardi selvatici, mosto cotto di fichi rosa di Pisticci o con la
Padellata di funghi cardoncelli, cicoria cimata alla colatura di alici, sponsale rosso di Acquaviva, patate alla curcuma e zafferano di Gorgoglione, broccoli; ad aggiungere ispirazioni di culture lontane come nel caso del
Crudo di ricciola con ciliegie a tosazu, guanciale croccante, scorzonera e caviale di muschio irlandese o della
Barbabietola al cartoccio, con kefir, sale affumicato, crema e crauti di cavolo viola, acqua di cime di rapa di Fasano.

Padellata di funghi cardoncelli, cicoria cimata alla colatura di alici, sponsale rosso di Acquaviva, patate alla curcuma e zafferano di Gorgoglione, broccoli

Barbabietola al cartoccio, con kefir, sale affumicato, crema e crauti di cavolo viola, acqua di cime di rapa di Fasano
Tutte preparazioni che viaggiano sul filo dell’equilibrio gustativo, ora più rassicurante ora più precario, ma sempre convincente e meritevoli di un approccio laico e curioso da parte di chi siede tra queste mura di mattoni bianchi.
Fino ai dessert giocosi e irriverenti, uno su tutti, da applausi, è composto da una quindicina di ingredienti: la descrizione principale si riassume in un anko di cece nero di Acquaviva e cioccolato, bieta dolce, verdure candite e gelatina di buccia di cipolla tostata; il sapore cambia a seconda del lato dal quale si inizia a mangiarlo e si chiama
Allucinazione carsica: così, un cucchiaio alla volta, dal jazz si passa al punk e si arriva allo psichedelico.
La Gattabuia
Via delle Beccherie 92
Tel.+39.0835.256510
lagattabuia.com
chiuso giovedì e venerdì a pranzo.
prezzo medio: 65 euro