Dice Chicco Cerea che l'essenza della ristorazione italiana è - ossia: deve essere, perché è da sempre il nostro punto di forza rispetto al mondo - l'inclusività, l'accoglienza, il rapporto umano.
Dice Chicco Cerea che il gesto ha dunque, da noi, un significato centrale: preparare un piatto, cucinarlo alla guisa scelta dal cliente, che è ben altra cosa rispetto ad assemblare semplicemente ingredienti di una linea studiata a tavolino, del tutto precostituita.
Dice Chicco Cerea che, anche proprio per queste ragioni, non toglierà mai il menu alla carta dal Da Vittorio, pur affiancato da proposte di percorsi degustazione: perché l'ospite deve pure poter scegliere di mangiare quello che desidera. E poi perché il cuoco deve fare il cuoco, ossia cucinare, non basta essere parte di una sorta di catena di montaggio che costruisce a step il piatto: «Dov'è il rischio? Dov'è l'adrenalina mentre si sa di non poter sbagliare un punto di cottura?».
Chicco Cerea dice tutto questo giorni dopo aver cenato in un famoso ristorante straniero, esperienza che gli ha soddisfatto il palato ma certo non gli ha scaldato l'anima: «Un menu degustazione lunghissimo, ma tutto declinato sulla stessa logica. Saremo pure un po' viziati, noi italiani: ma che noia! Tutto uguale, tutto monocorde. Io in un ristorante di livello - che sia con una, due o tre stelle - mi aspetto più varietà. E credo sia giusto lasciare al commensale la possibilità di scegliere cosa gustare».

Enrico Cerea, detto Chicco
Tra i due modelli - menu fisso
vs libera scelta - c'è anche un grado assai diverso in termini di difficoltà, spiega
Chicco. «C'è un abisso di tensione, di organizzazione in cucina». Essere esposti ai desideri dei clienti è più difficile, ma proprio qui risiede l'abilità dello staff, la forza del locale. Anche perché così si chiama in causa l'abilità del cuoco: «Esistono cucine interessanti, intelligenti, piacevoli, dove però si assiste a tanta opera di preparazione prima, nel momento di comporre la linea. Poi, invece, durante il pasto, ci si limita all'assemblaggio. Non ci si mette in gioco in una cottura se non per un piatto su sedici». Non va bene, si perde l'anima: «In un ristorante italiano, se viene sbagliata la cottura di uno spaghetto, il cliente lo capisce subito. Idem per la carne o il pesce. Vado in certe cucine: vedo puro assemblaggio, al massimo una fiammata con il cannello, stop».
Cerea non contesta tale modello in assoluto, «ok: c'è ricerca, ci sono idee, vengono proposti sapori magari poco conosciuti, anche se ormai è difficile sorprendere davvero, con la globalizzazione ormai abbiamo assaggiato più o meno tutti gli ingredienti, bene o male». Lui ne fa una questione d'italianità: «In Italia, l'essenza del cuoco è cucinare! Ossia soddisfare i desideri del cliente. Per me imporre un solo menu fisso è un obbrobrio». Aggiunge: «Intendiamoci, io stesso organizzo banchetti fino a 1000 persone, lì è tutto uguale, con qualche variante, ci sono magari le richieste di piatti senza glutine, quelli senza crostacei, eccetera». Poca roba: «È catering, non ristorazione stellata». Concetti differenti: da una parte la staticità di preparazioni standardizzate, dall'altro la dinamicità della battaglia quotidiana ai fornelli.

La tavola del Da Vittorio a Brusaporto (Bergamo)
«Mi è capitato, anche in Italia, di vedere cose che non capisco». Ossia? «Tempo fa. Ristorante molto importante, menu fisso. Al tavolo vicino al mio, alcuni clienti non mangiano alcuni piatti previsti, a causa di intolleranze alimentari che avevano segnalato. Prima cosa: non viene proposta loro alcuna alternativa. Seconda cosa: hanno pagato come avessero consumato il menu intero. Me li sono ritrovati all'uscita, nel parcheggio, che si lamentavano tra di loro di questa cosa». Non dovrebbe accadere in un ristorante italiano, pensa
Chicco. Un ristorante italiano deve essere ospitalità, quella incarnata dalla vecchia figura dell'oste. «Fornire un servizio, una coccola. Siamo l'accoglienza, il sorriso, la chiacchiera, il venir incontro a quello che l'ospite ha voglia di assaggiare, la serata piacevole, il parlare di un piatto, di una ricetta, di un ingrediente, il confronto "mi-piace-non-mi-piace". È movimento mentale e fisico. Fa parte del nostro dna».
Aggiunge un aneddoto: «Qualche settimana or sono chiacchieravo con quelli di Losanna (ossia dell'École hôtelière de Lausanne, ndr), erano a Bergamo per un progetto che stiamo portando avanti con il sindaco Giorgio Gori. Mi elencavano le pecche della ristorazione italiana. Io ho ammesso: è vero, quanto a managerialità siamo a zero. Ma - ho aggiunto - sull'accoglienza non ci batte nessuno. È il nostro plus». Un esempio: «Negli anni Sessanta, nello staff del celebre Dracula Club di St. Moritz non entrava un italiano, ti escludevano a priori; ora i due restaurant manager sono entrambi nostri connazionali. Perché? Perché abbiamo qualcosa in più». Il che comprende dare la possibilità di scegliere, «non devo essere io a imporre cosa mangiare. Consentire la scelta. Sempre, sempre, sempre».