L’accoglienza coinvolge con occhi sinceri: farti sentire a casa è l’urgenza di una sala che si rivelerà attenta, colta, mai affettata. Ristorante Il Principe a Pompei, cinque minuti (a piedi) dal famosissimo Santuario, riferimento per quei turisti che, all’ora dei pasti, optano per insegne più raffinate. Tappa fissa di chi, per raggiungerlo, non esita a spostarsi da Napoli, Salerno, anche da Roma. Un target decisamente giovane che lo chef patron Gian Marco Carli, negli anni, ha saputo catturare con idee ricercate e stile potabile, prezzi inclusi.
Dicevamo, l’accoglienza. La luce esterna trapassa le ampie vetrate e si mescola alla sapiente illuminazione voluta per la sala interna. Va sottolineato, gran bella atmosfera. Ambienti essenziali, tavoli nudi, tanto legno in giro, c’è del nordico anni ‘20 che restituisce rigore senza mettere in soggezione. Il dehors colmo di fiori aggiunge allegria, ma subito richiama all’ordine con l’installazione di un frammento originale del pavimento della Casa dei Vettii, domus di epoca romana seppellita dall’eruzione vulcanica del ‘79. Siamo pur sempre a Pompei. Dettaglio, questo, che per Gian Marco Carli significa studio costante sugli usi e costumi degli antichi romani a tavola. Parliamo delle tavole patrizie, ma anche di quelle plebee. «Oggi tutti a preparare fermentazioni come se fosse una moda, ma ricordiamoci che i romani le facevano già allora, praticamente le hanno inventate loro».
Inizia prestissimo,
Gian Marco. Classe 1988, figlio d’arte, di
Pina e
Marco Carli, detto
Il Principe, storica stella Michelin per ben 15 anni. Oggi, oltre al cambio sede, la nuova generazione propone cenni storici e tradizione partenopea, con codici nuovi, costantemente aggiornati. Una cucina giovane, fresca, divertente nonostante i richiami filologici. Lo chef si illumina raccontando il periodo trascorso tra Messico e Guatemala. Parte consistente della sua ispirazione si geolocalizza esattamente lì. Seguiranno quattro anni a Sant’Agata sui Due Golfi, nelle cucina del
Don Alfonso 1890, un anno al
Quattro Passi di Nerano, finché il 27 giugno del 2018 inaugura
Il Principe.
Gian Marco Carli si definisce un tradizionalista che si racconta attraverso le esperienze. Nei piatti, tanta frutta e verdura in ricordo della potente biodiversità respirata in Guatemala. «Quella in America Latina resta sicuramente la mia esperienza formativa più segnante». E ben la raccontano anche le altre anime di un ristorante che, senza dubbio, arriva giovane, fresco, pieno di entusiasmo. In sala, il maitre
Massimo De Simone, sommelier non sommelier che riesce a stupire con azzardi sempre ben calibrati. Con lui,
Claudia Langella. Compagna dello chef, padrona di casa che ha dalla sua due armi potentissime, grazia e naturalezza. In cucina con
Gian Marco, il sous chef
Aniello Cirillo ed il pastry chef
Umberto Garofalo. Appello doveroso a favore di un ottimo lavoro di squadra. «Devo a loro gran parte dei risultati raggiunti, con la brigata in cucina siamo talmente in empatia che ormai lavoriamo senza guardarci, sentiamo quello che sta facendo l’altro».
Veniamo ai piatti. Una carrellata di sostenibilità ispirata da suggestioni ancestrali e rinforzi esterofili. Per esempio, qui si mangia tanto con le mani: «Mi piace l’idea di incoraggiare un gesto infantile. Oltretutto le mani sono piene di recettori, lo stomaco inizia a predisporsi». Al contempo, è un invito a rilassarsi, a godere di un dining che, seppur fine, ci tiene ad arrivare dritto al suo destinatario. E quindi all’anima.
L’inizio è un dolce incedere all’insegna del comfort food. L’olio in degustazione è pugliese, monocultivar Peranzana di Michele Fiorentino, varietà tipica del Tavoliere della Puglia. Per assaggiarlo, cracker al rosmarino, pagnotta di farro, pane ai sette cereali, grissini al finocchietto.
L’aperitivo, subito dopo, è un atteso percorso tra le eccellenze campane. Burro mantecato con le alici di Cetara, finto cornicione di pizza ripieno di mozzarella, pomodoro e basilico. C’è un biscotto di grano arso, per raccontare stavolta l’entroterra, con stracotto di maialino, tartufo nero e ricotta di pecora affumicata. La bombetta, classica graffa fritta rivisitata in chiave salata, con ragù alla genovese e pecorino bagnolese invece dello zucchero. Chiude il percorso, un chutney di pomodoro San Marzano. Sapori intensi, facciamo pure esplosivi. Cambia la forma, ma il morso evoca ricordi d’infanzia. Ed è qui che lo chef porta a casa una risultato fondamentale, sono i piatti del cuore.
Si prosegue con una parmigiana di melanzane ripensata nell’estetica. Gian Marco Carli ricostruisce l’involucro originario e lo farcisce con tutti gli elementi del piatto tradizionale. Si mangia con le mani, morso dopo morso (filante), come se fosse un crocchè.

Verdure, crude, cotte, fermentate e marinate
Per il piatto successivo, sapiente utilizzo dei vegetali a favore di un vero e proprio concerto di sostenibilità: quattordici verdure diverse, crude, cotte, marinate e fermentate.
Poi arriva il salmone e si inizia a viaggiare. Gravlax affumicato in casa, lattica di bufala, polvere di olive nere e cipolla marinata all’aceto.

Tacos di carota, pulled lamb, cetriolo fermentato, bbq di San Marzano, cipollotto dell'Agro alla brace
E si va ancora più lontano con il tacos. In realtà lo chef, qui, vince facile. Ti porta lontano, ma con i piedi a terra ben saldi. Messico nell’idea, Campania nella forma. Il tacos è di carota, farcito con pulled lamb, agnello Laticauda dell’appennino campano, cetriolo fermentato, bbq di San Marzano, cipollotto alla brace.

Uovo a 64°, emulsione di riccio, caviale di tartufo, cacioricotta di capra del Cilento e alici del Cantabrico
Meglio un uovo oggi.
Gian Marco Carli lo cuoce, come da “disciplinare”, a 64° per servirlo con un’emulsione di riccio, caviale di tartufo, cacioricotta di capra del Cilento e alici del Cantabrico. Vi consigliamo di non perderlo.
Arriva la pasta, per noi Linguine con la colatura di alici di Cetara, salsa di friggitelli, datterino candito, pane aromatizzato alle erbe. E si prosegue con il secondo: Tonno shabu shabu marinato con soia e miele, ananas, peperoncini verdi, sedano rapa e daikon. Un primo ed un secondo concettualmente diversi, ma lo chef è fatto così, si diverte a stuzzicarci.
E dietro un ottimo chef, ci auguriamo sempre di trovare un ottimo pastry chef. È lui che appone il sigillo finale sugli ultimi assaggi prima di lasciare il ristorante. Come predessert, cremino al miele con la riproduzione del nido delle api (si tratta di un piatto che verrà incluso nel progetto #savethebees). Si prosegue con un dolce di ispirazione guatemalteca a base di riso, latte e cannella, gel all’arancia e pan de banano. Contro un cioccolato con frutto della passione, kiwi ed ananas cotti in osmosi e pralinato di mandorla, Fresco, decisamente estivo. L’ultimissimo saluto è quello della piccola pasticceria. Immancabile il babà, così come la piccola graffa fritta, la merenda dei bambini campani. Dio salvi questi ricordi, a vantaggio di una creatività vivace che sa puntualmente tornare alle origini. L’esperienza a Il Principe: un emozionante viaggio di andata, con il biglietto di ritorno già pronto in tasca.