Sembrava una semplice osteria di campagna nella Bassa Parmense, come tante altre, lungo l'attuale strada provinciale 91, a Samboseto, gruzzoletto di case con Busseto a sette chilometri. Zone tranquille, e d'inverno nebbiose ancor oggi; anche di più qualche decennio fa. L'edificio appariva all'esterno anonimo, grigio, con la toilette fuori dell’uscio, in cortile. L'insegna era semplice. Però «superata la soglia (con il bancone delle cose di uso corrente a destra e, a sinistra, il frigorifero), si entrava nel regno delle fate» ha scritto Baldassarre Molossi.
Era la mitica trattoria Cantarelli.
Ne parliamo oggi, perché è stata archetipo di tanta cucina contemporanea; e con quest'ultima ora in stand by, val la pena per un attimo volgere lo sguardo al passato per fissarlo nella nostra memoria e trarne magari qualche insegnamento. Non si parla diffusamente di "trattorie moderne", in questi ultimi anni? Cantarelli tale era, però oltre mezzo secolo fa. Che poi, non era nata nemmeno solo come trattoria: semmai come emporio di campagna, uno di quei presidi dispersi - e oggi sempre più rari - dove si trovava un po' di tutto, dal sapone per il bucato e dalle bustine di lievito ai tubi dei lumi a petrolio, alle spolette di filo per cucire e al bicarbonato di soda: era posto telefonico pubblico, rivendita di generi alimentari, drogheria paesana, spaccio di sali e tabacchi, ma anche un luogo dove i contadini la sera bevevano bicchieri di lambrusco e fortana fra una partita e l’altra di briscola, mangiando all'occorrenza qualcosa. «Si entra, la porta scampanella, c’investe quell’odore misto di saponette, di tabacco, di spezie e di onorata muffa di salami, spalle e culatelli che pendono dalle travi annerite del soffitto» (Pier Maria Paoletti, Panorama, 1966).

Una vecchia immagine della trattoria Cantarelli. Scrisse Federico Umberto d’Amato sulla Guida ai ristoranti de L’Espresso del 1979: «Negli anni ‘50, negli anni ‘60, anni bui per la nostra cucina (...) davanti alla superbia francese, peraltro giustificata, potevamo almeno replicare: "Voi avete il vostro Point, il vostro Bocuse, noi abbiamo il nostro Cantarelli". Ed in effetti non avevamo che lui (e il rimpianto Nino Bergese). Poi è venuta la "nuova cucina" e noi, che ne siamo accaniti fautori, non possiamo dimenticare che già prima che questa "filosofia" gastronomica si affermasse, Mirella Cantarelli ne anticipava i principi e la pratica, litigando con la suocera, brava cuoca all’antica, che le rimproverava di essere in cucina una ragazza troppo originale e "moderna"»
Lo avevano aperto a inizio Novecento, pare nel 1908, il signor
Sante Cantarelli, un omone che faceva il commerciante di bestiame in tutt'Europa, e la moglie
Ines Parizzi, che gestiva dunque il locale. Loro figlio
Peppino era nato nel 1919; il tempo di studiare dai Salesiani a Parma ed era dovuto andare in guerra; tornato nel 1943 per aiutare la madre col lavoro, non aveva perso tempo e già due anni più tardi era convolato a giuste nozze con
Mirella Del Nevo, bussetana anche lei, papà ferroviere e mamma che in gioventù era stata a servizio in grandi case mantovane, dove aveva appreso l'arte dei fornelli.
Mirella era più giovane (classe 1927) di
Peppino: una bella sartina un po' taciturna ma davvero capace, che subito s'era messa di buzzo buono per imparare dalla suocera i segreti per cucinare al meglio i piatti tradizionali della zona, gli anolini, i tortelli d’erbette, il pollo...
Fin qui, nulla di strano, una placida successione generazionale in un'osteria dispersa tra i campi. Poi però succede qualcosa; e succede ad Alassio, nel 1948. Ebbe a ricordare Mirella: «Ero là in vacanza con la bambina e un giorno entro in un negozio bellissimo (un vinaio, in vetrina una matusalemme di Pommery, ndr), con un assortimento straordinario, venti marche solo di cognac. Quando viene Peppino a trovarmi, lo porto a vederlo: un negozio così era il mio sogno, e gliel’ho detto. Spostiamoci in città, magari a Fidenza, dico, e apriamo un bel negozietto di specialità. Peppino ci ha pensato sopra un bel po’, e poi ha detto: mettiamo della bella roba a Samboseto, vedrai che la gente ci verrà». Scrive Paoletti: "(Peppino) appena tornò a casa pensò di mettere qualche bottiglia pregiata, così per civetteria, nell’osteria di sua madre. (...) Si comperò tutti i trattati fondamentali, come vanno serviti i vini e con quali portate e un bel giorno decise di andarsene a scuola in Francia. Salutò moglie e madre, andò a Parma, prese il treno e partì per Bordeaux per visitare le cantine dei Rothschild a Pauillac. Fu alla direzione della Bergerie e chiese se poteva visitare i suoi tre famosi Châteaux: il Baron Philippe, il Mouton, il Lafite. Quelli furono gentilissimi, gli fecero assaggiare addirittura le annate migliori, il ‘28 e il ‘47, gli mostrarono la riserva personale e perfino il museo di pipe e di bicchieri di tutte le parti del mondo. E infine il barone, preso da forte simpatia per questo giovane provinciale incantato come davanti al tesoro degli Asburgo, l’invitò a cena e gli spiegò, da par suo, una quantità di cose che doveva sapere".

L'articolo uscito su Panorama nel 1966, lo firma Pier Maria Paoletti
Ora: va bene l'entusiasmo. Però nondimeno può apparire folle l'idea di proporre chicche enogastronomiche di tal fatta in un paesino di quattro case, nel Parmense, alle soglie degli anni Cinquanta, «difatti gli inizi non furono facili, con nonna
Ines che non capiva fino a che punto fosse sensato osare lungo questa strada e i debiti che stentavano ad essere ripagati», ha raccontato recentemente il figlio
Fernando Cantarelli. In realtà papà
Peppino qualche calcolo se l'era fatto. La "nuova veste" del
Cantarelli come emporio di eccellenze e ristorante di qualità sarebbe stata pronta nel 1953. Come ha raccontato il gastronomo
Marco Guarnaschelli Gotti, «l’Agip in quell’anno inizia delle perforazioni a Samboseto, nella febbrile ricerca del mitico petrolio padano. La gente dell’Agip, dirigenti, ingegneri, tecnici, creano una prima corrente di clientela stabile, ed è una clientela non locale, di gente che ha viaggiato, in grado di apprezzare la qualità, quel che c’è di nuovo, in grado anche di dare consigli. Una clientela utile, perché il lavoro di
Peppino Cantarelli, anche se per il momento lui non se ne rende conto, è proiettato oltre i limiti regionali e oltre le angustie del presente».

Peppino Cantarelli in bottega. Ha raccontato il figlio Fernando: «Mio padre era decisamente a proprio agio quando aveva a che fare con giovani inesperti ma interessati alla materia, rispetto invece a chi si dava delle arie di connoisseur, senza avere né il talento né le capacità. Per questi ultimi escogitava scherzi feroci, come quando riempì con il rosso amaro della casa (un ottimo Montepulciano, peraltro) una bottiglia di Château Mouton-Rothschild che uno chef di rinomanza internazionale aveva ordinato come accompagnamento della propria cena. Al momento di pagare l’illustre personaggio avvertì mio padre che c’era un errore nel conto, visto il prezzo decisamente a buon mercato della bottiglia che era stata ordinata: e allora Peppino spiegò che no, quello era il prezzo giusto del vino bevuto e apprezzato come se fosse stato il nobile bordolese»
Teniamo presente questa data: 1953. Tre anni dopo sarebbe nata la Guida Michelin italiana; quattordici anni più tardi la trattoria
Cantarelli avrebbe ottenuto la prima stella; nel 1970 la seconda, mai più persa fino alla chiusura, il 31 dicembre 1982. Nell'arco di questo trentennio, Samboseto sarebbe diventata una tappa imprescindibile per i gourmet italiani, e non solo. Voglio dire: non solo italiani, e non solo gourmet anonimi, ma anche scrittori, attori, poeti, registi, intellettuali, imprenditori...
Soldati e
Zavattini,
Montezemolo e
Agnelli, la
Pampanini e la
Valeri, e poi la
Renata Tebaldi,
Giuseppe Ungaretti,
Giovannino Guareschi,
Christian Millau (quello della guida
Gault Millau),
Luchino Visconti,
Wally Toscanini,
Walter Chiari,
Bernardo Bertolucci,
Burt Lancaster,
Harvey Keitel; e ancora
Robert De Niro che era appassionato di minestre («Si ricordò di noi quando dovette ingrassare forzosamente per interpretare
Jake LaMotta in
Toro scatenato: venne a trovarci e lo rimpinzammo volentieri di tante cose buone», a parlare è di nuovo
Fernando Cantarelli);
Gérard Depardieu curioso in cucina e che vuole imparare come si fa questo e quello;
Donald Sutherland che non mangiava fegato, ma rimane rapito dal fegato di vitello agli aromi cucinato da
Mirella e se lo fa preparare ancora e ancora...

Harvey Keitel e Robert De Niro seduti a un tavolo del Cantarelli

Una cartolina spedita al Cantarelli da Giovannino Guareschi
Cos'era successo? Più di una cosa. Intanto, la trovata di fare del vecchio negozietto una summa di meraviglie golose col tempo era giunta a compimento, «l’intenditore che osservasse gli scaffali affollati e vedesse sbucare tra sali, tabacchi e coppe il salmone affumicato di Barnetts, il whisky di malto di Bruchladdich, i paté di Strasburgo e le marmellate scozzesi (un piccolo
Fortnum & Mason, è stato definito), capirebbe di trovarsi di fronte a qualcosa di insolito», scrisse
Dario Zanasi nel 1965. Un luogo di delizie, «una bottega vera ma anche fantastica», per dirla con
Mario Soldati. Poi, la cantina: straordinaria, conteneva i migliori vini d’Italia e di Francia; gli champagne più prestigiosi; e meravigliosi superalcolici; ma
Cantarelli aveva perfezionato anche due "vini della casa": il bianco secco "da antipasto", frizzantino, un taglio segreto con riesling e trebbiano che proveniva dalle botti dei fratelli
Bergamaschi, a due passi,
Peppino lo chiamava «il mio champagnino»; e la Scorzamara, un lambrusco migliorato che oggi si chiama Scorzonera perché il primo nome è nelle denominazioni della provincia di Mantova.

Peppino Cantarelli serve Bruno Pizzul
Quindi, la sala. Muri di mattone, un bel caminetto, due lampadarietti di cristallo, una borsa di pelle con le aquile da portaordini napoleonico appesa alla parete e sulle mensole, in alto, un esercito di bottiglie blasonate osservavano una teoria di tovaglie di Fiandra, posate inglesi d'argento, piatti di porcellana, i bicchieri (di cristallo Baccarat) «allineati di tutti i tipi per tutti i vini che si vorranno ordinare, il ver d’Alsace con lo stelo sottilissimo e il fondo verde, l’omèr per il Beaujoulais, i balon Chambertin per i vini di Borgogna, i bordelais per quelli di Bordeaux, i bicchierini da Porto, da Xeres o da domestico nocino...» (
Paoletti).
Peppino Cantarelli presiedeva questo piccolo, incredibile universo con una teatralità sorridente e gioviale, limitando i coperti al massimo a 50, «mi scusi - diceva a chi si presentava sull'uscio troppo tardi, o senza prenotazione - Ma molto e bene non si può fare».

Il bel libro (straricco di informazioni, che abbiamo sintetizzato in questo articolo) I Cantarelli - Storia e mito della cucina italianafirmato da Alberto Salarelli. È del 2013, oggi purtroppo risulta esaurito
Scrive il professor
Alberto Salarelli nel suo
I Cantarelli - Storia e mito della cucina italiana (2013), testo fondamentale per questo racconto: «A sentire chi è stato da
Cantarelli, pare che l’impressione di trovarsi al centro di una recita fosse estremamente percepibile. I dettagli raffinati dell’apparecchiatura, l’elegante ritualità del servizio (c’è modo e modo di stappare una bottiglia, c’è modo e modo di togliere le briciole dalla tovaglia), la platea eterogenea dei commensali di variegata provenienza geografica, nella quale spiccavano volti noti e meno noti, si rivelano come pochi spunti, a titolo di esempio, di come l’intera sfera dei sensi fosse allertata e dunque coinvolta lungo il tempo del pranzo o della cena. Se la cucina era il regno incontrastato di
Mirella, al centro della scena era solo lui:
Peppino. Direttore e mattatore, il
Cantarelli intratteneva, presentava, illustrava: un piatto, un vino, un aneddoto. Le redini del potere di quel piccolo grande regno erano tutte in mano sua». E il grande maestro del servizio
Antonio Santini ricorda: «Ovviamente il cibo cucinato da
Mirella era straordinario, non per niente era un due stelle; ma portato in tavola da
Peppino acquistava un che in più. In quella trattoria c’era il piacere di sentirsi aristocratici pur immersi in un’atmosfera di semplicità e spontanea accoglienza». E
Valentino Marcattilii: «L’aria che si respirava là, dove si apriva una bottiglia di Romanée-Conti per mangiare una coscia di faraona, è qualcosa di magico. Un fascino davvero irripetibile».
Tra le ragioni del successo del ristorante abbiamo tenuto per ultima la cucina: ma è solo per mera scelta narrativa. La timida Mirella che, lo abbiamo visto sopra, ancora giovanissima neo-sposa imparava dalla suocera a cucinare alla perfezione i piatti della tradizione si era rivelata con gli anni ricca di estro e fantasia; instancabile facitrice di bontà rimaste nella storia della tavola italiana; capace di creare nuovi accostamenti sapientemente armonizzati, in questo stimolata dal marito, che lei chiamava “il Chimico” per la sua pignoleria nell’analizzare ciò che ella preparava. «Peppino, per istinto di perfezione e senza rendersene conto, rimette in discussione la tradizione approfondendola e portandone al massimo rendimento tutti i dati» (Marco Guarnaschelli Gotti).

Mirella Del Nevo al lavoro in cucina. Il gastronomo Toni Sarcina una volta le chiese il motivo dei “23 tuorli per ogni chilogrammo di farina” e lei rispose: «Come vedi, non sono un tipo tranquillo e qualche volta Peppino, con le sue critiche, mi innervosisce; un giorno di molti anni fa stavo facendo la sfoglia e, dopo una discussione su un piatto, ero abbastanza irritata e, dividendo i tuorli dagli albumi, parlando nello stesso tempo, continuavo a rompere le uova mettendole al centro della “fontana” di farina e non mi ero accorta di aver messo 23 tuorli; che fare, buttare tutto? Nemmeno per sogno! E feci l’impasto; era buonissimo, giallo e le tagliatelle fantastiche. Da quel momento, la pasta all’uovo della mia cucina fu fatta da 23 tuorli per chilo di farina»
Perché oggi siamo adusi a considerare la trattoria
Cantarelli, oltre che tutto ciò che abbiamo detto, come un tempio della tradizione emiliana. Vero, ma non basta. Perché «la lezione più importante dei
Cantarelli consiste, a mio modo di vedere, nella capacità di saper interpretare i tempi affinando l’occhio critico e sviluppando al di là delle mode la propria personalità. Ciò significa avere a che fare con una concezione alquanto moderna della ristorazione: dinamica, aperta alle contaminazioni, coraggiosa nello sperimentare quanto rispettosa di una dimensione territoriale. (...) La grandezza dei
Cantarelli fu di non essere mai provincialisti, vale a dire, in buona sostanza, succubi della tradizione. (...) I
Cantarelli ci hanno insegnato che non bisogna piegarsi alla mera proposta del piatto tradizionale, troppo spesso sbrigativamente fatto passare come elemento identitario di una cultura del territorio», scrive acutamente
Salarelli.
E aggiunge ancora: «La cucina dei Cantarelli riuscì a sfuggire dai rischi della dittatura dei piatti tipici, veicolatori di pratiche gastronomiche fortemente reazionarie, tese cioè all’idealizzazione di usi e costumi spesso inventati di sana pianta, grazie ad una propensione, che divenne sempre più spiccata nel corso degli anni, verso la ricerca e la sperimentazione. (...) Se non si intende questa attitudine non è possibile capire perché il ruolo interpretato dai Cantarelli sia considerato un passaggio fondamentale nella storia della cucina italiana contemporanea e Samboseto, per dirla con Stefano Bonilli, il luogo del mangiare che diventa in quegli anni il parametro della nuova cucina». E Fulvio Pierangelini: «Mirella riusciva a sublimare la cucina di casa: il massimo di ciò che si può fare nel nostro mestiere. Fare cose che oggi chi è arrogante dice essere semplici. Ma il gesto è naturale, si conosce la materia e allora non c’è bisogno di sovrastrutture. Mirella aveva la precisione dell’esecuzione. Nella scelta di quel piatto si era vista la sua forza. Le cose complicate le fa chi non sa cucinare. Il suo vitello era un concentrato di sapienza, di storia, di necessità ed economia domestica, di savoir-faire e cultura popolare».

«Gli anolini? Sono quelli ricchi di Parma, non quelli austeri, senza carne, di sotto Po: ripieno di manzo stracotto macinato fine, con Parmigiano, uovo, pangrattato, noce moscata, il tutto "mouillé" col denso sugo dello stracotto stesso. La pasta: 24 rossi più 2 bianchi per chilo di farina! Brodo di manzo e di gallina. La bomba di riso è una meraviglia in stampo di rame foderato di pangrattato, dorato e croccante, ripiena di fragrante carne di piccione stufato: specialità di Busseto, capolavoro di Ines Cantarelli. A questo punto abbiamo capito che qualcosa di straordinario c’è: Peppino, "il Chimico", per istinto di perfezione e senza rendersene conto, rimette in discussione la tradizione approfondendola e portandone al massimo rendimento tutti i dati (le uova sono l’ideale dell’uovo, ogni pizzico di cannella o di pepe è provato e ricalcolato, il Parmigiano grattugiato è un Parmigiano da concorso nel brodo partner del manzo è la gallina perché il cappone, provato, lo dà troppo "dolce"...). Tipica pignoleria par- migiana? Certo, ma in positivo, applicata in pratica» (Marco Guarnaschelli Gotti)
Ma cosa si mangiava, dunque, a Samboseto? Leggete queste righe seguenti solo se siete ben sazi. S'iniziava rigorosamente con i salumi: un culatello meraviglioso, una spalla cotta, un crudo, una coppa... Unica alternativa, le
Mousse di pollo con mandorle, o
di prosciutto, o
di tonno, o
di fegato e pinoli. Poi i primi:
Tortelli con le erbette,
Risotto coi piselli, o
primavera (giallo con piselli e fegatini), o
agli asparagi o
alla zucca, a seconda della stagione; e
Gnocchi di patate, Tortelloni di ricotta, Agnolotti, Sfogliatelle di ricotta, Zuppa di cipolle gratinata. Tra i secondi,
Faraona alla creta o
farcita ai carciofi o
ai funghi, Tacchino con la crema, Fagiano arrosto, Lepre in salmì, Pollo alla cacciatora o
tartufato, Brasato col barolo, Soufflé di lingua, Lingua alle olive, "
Vitello prelibato" (un umido di sottospalla con cipolle al forno e funghi di Borgotaro), e - da luglio a ottobre, novembre -
Anitra con l’arancia e il cognac. Si terminava, magari dopo un assaggio di parmigiano stravecchio, con lo
Zabaione alla crema, la
Mousse di cioccolato al Grand Marnier, la
Torta di mandorle al forno, ricetta di mamma
Ines.

Il Savarin di riso. Ha detto Andrea Grignaffini: «In quegli anni, è d’uopo ricordarlo, era in voga un modello culinario cucito su quello francese, un modello senza storia, né futuro, un falso mito che aveva fatto scemare anche il ricordo della tradizione culinaria italiana. Ma Cantarelli questo l’aveva capito, e così nacquero piatti come il leggendario Savarin di riso, una creazione così ben concepita che, assieme agli altri elementi, fecero della trattoria Cantarelli il luogo prediletto dove celebrare la resurrezione della cucina italiana»
Qualche nota a parte merita il leggendario
Savarin di riso, oggi diremmo il signature dish dei
Cantarelli: uno sformato di riso guarnito di lingua salmistrata e arricchito con funghi, polpette di filetto di manzo triturato con verdure, formaggio di grana stravecchio, uova di pollaio. Spiegò
Mirella: «Nacque tra il ‘60 e il ‘61. Avevo preso l’idea da una rivista di cucina, poi l’ho modificata pian piano, sempre stimolata dal
Chimico, fin che è stata a punto per i clienti. In quegli stessi anni, o poco dopo, sono nati la
Faraona alla crema e il mio zabaione speciale. Eh, sì, c’è un segreto: incorporarci un po’ di liquore Strega e di panna». Ha detto
Massimo Bottura a
Errica Tamani, nel volume già citato: «(I
Cantarelli) avevano la visione, il sogno: insegnare, cioè educare i palati delle persone. Quando ancora in Italia si bevevano vini chiusi col tappo a corona, quando le nostre vacche brune, quelle rosse venivano sostituite con le frisone olandesi e non c’era il rispetto della qualità,
Cantarelli rispettava e valorizzava il terroir, proponeva la lezione dei vini francesi, i grandi cru, e li miscelava con una cucina di tradizione in evoluzione. Probabilmente la mia
Faraona non arrosto viene da
Mirella; c’è l’idea di una memoria vista in chiave critica e non nostalgica, c’è il rimando alla Francia con la farcia di fegatini nella coscia e di foie gras nel sottocoscia e c’è la presenza di salse».
Un menu superbo di suo, affinato con gli anni, che già all'inizio però attirò molta attenzione tra i buongustai. La fama della trattoria Cantarelli si sviluppa in almeno tre passaggi fondamentali. Primo, anno 1956: il "Vitello prelibato" (divenuto più tardi ovviamente "Vitello alla Cantarelli") vale al ristorante un articolo di lode sull’Informatore Moderno di Milano, un periodico a circolazione e clientela fortemente specializzata, soprattutto liberi professionisti.

Il Viaggio nella valle del Po di Mario Soldati, sulla neonata Rai
Seconda tappa nel 1958, con la trasmissione televisiva di
Mario Soldati Viaggio nella valle del Po: pietra miliare della televisione nata solo tre anni prima, primo reportage enogastronomico della Rai;
Viaggio nella valle del Po è andato in onda in 12 puntate; mise al centro di una narrazione fraterna e popolare genti, usanze, prodotti, ricette e riti di un'Italia rurale ricca di tradizioni culinarie. La puntata in cui compare il
Cantarelli è la 11 (
vedi qui su Raiplay), proprio all'inizio: «Siamo a Samboseto - esordisce lo scrittore nonché ghiottone errante per la Bassa - Non San Boseto, ma tutto attaccato, Samboseto». Colpiscono le sue parole: «Come vedete è una borgata della pianura desolata e primitiva» e fa vedere un fabbro all'opera, prima di introdurre l'elemento narrativo a contrasto: «Sono qui a fare un sopralluogo perché mi hanno detto che c'è uno spaccio di alimentari, con annessa piccola trattoria, che ha qualcosa di straordinario. Uno passando in automobile non s'accorgerebbe di nulla: bisogna proprio andarci a piedi, fermarsi e guardare la piccola vetrina» lui entra ed ecco un giovane
Peppino che gli racconta un po' impacciato «questa strana bottega, che è vera ma anche fantastica» dice
Soldati snocciolando nomi di grandi etichette francesi, per lo spettatore sarà sembrato davvero qualcosa di fuori dal mondo. Poi
Mirella spiegherà di fronte alla telecamere la ricetta della
Faraona alla creta. (E non sorprenda, a vedere un intellettuale come
Soldati a decantare i "cibi genuini" d'Italia: era un'epoca in cui questa operazione culturale era sentita, proprio nel 1953 era stato lo scrittore
Orio Vergani a capitanare la nascita dell'
Accademia Italiana della Cucina, nel segno di una riscoperta dei piatti caratteristici e tradizionali contro la progressiva standardizzazione del gusto italico).

Peppino Cantarelli accoglie Mario Soldati all'entrata della bottega

La telecamera indugia sulle bottiglie francesi

Soldati mostra un pezzo di culatello

Soldati con la signora Mirella

Cantarelli e Soldati, in piedi, attorno a una tavola
Ulteriore tappa della notorietà della trattoria di Samboseto sarebbe stata ormai nel ‘62, la recensione di
Paoletti, della quale abbiamo già riportato alcuni passi, sul neonato settimanale
Panorama. E non si può non citare l'allure internazionale che diede al
Cantarelli il film
Novecento di
Bertolucci, uscito nel 1976: le riprese erano state effettuate tra le province di Parma, Cremona, Reggio Emilia, Mantova e Modena e il cast (alcuni li abbiamo già citati:
De Niro,
Depardieu,
Lancaster,
Sutherland, ma anche
Dominique Sanda,
Alida Valli,
Stefania Sandrelli,
Laura Betti,
Romolo Valli, persino
Liù Bosisio, la signora
Pina di
Fantozzi) quando lavorava alle Piacentine, una corte agricola distante pochi chilometri, faceva tappa spesso e volentieri alla tavola di
Mirella e
Peppino.
Fernando Cantarelli: «Come dimenticare il periodo di
Novecento: pazzesco, senza orari (la troupe arrivava quando le riprese erano terminate), senza limiti: una portata dietro l’altra, piatti sbafati, riordinati e risbafati. Con
Sutherland e la
Betti che avevano scoperto una vera passione per il fegato di vitello agli aromi, pretendendolo sempre e comunque. Furono settimane di passione e di lavoro continuo, con una frenesia che non abbiamo mai più vissuto dopo. Ma con tanti ricordi indelebili: non è da tutti portare in giro in Vespa
Dominique Sanda, che si avvinghiava a me, sedicenne, che guidavo, e che naturalmente avevo i sudori freddi. O stringere amicizia con
De Niro».
Metà degli anni Settanta, siamo quasi alla chiusura dell'epopea. Peppino andrebbe avanti, ma Mirella è sempre più stanca, «mia moglie ormai lavorava appoggiandosi, faceva fatica a stare molte ore in piedi. Io non avevo cuore di guardare quelle sue gambe gonfie, lei che da giovane aveva delle gambe che sembravano quelle di Marlene Dietrich. Né d’altra parte abbiamo mai pensato di prendere dei cuochi. Le mani sono mani, non si possono sostituire. Meglio chiudere che tirare avanti non avendo la garanzia di essere all’altezza della propria reputazione», uscita di scena da primattori all’apice della carriera, viene in mente Ferran Adrià.
Il
Cantarelli chiude ufficialmente alla fine del 1982, anche se il 15 gennaio 1983 si svolse ancora una memorabile cena d’addio, con la partecipazione di amici di ogni parte d’Italia. Ma molto è rimasto: un progetto di successo che si è fatto modello. Scrive
Salarelli: «In fondo ciò che loro hanno avuto in mente fin da subito è stato proprio questo: creare nella Bassa, lontano dalla città, un luogo di delizie che fosse unico nel suo genere, nel quale si potessero confrontare la dimensione locale, quella dei prodotti unici della nostra terra, con quella internazionale, delle migliori caves e gourmandises del mondo. Era un progetto ardito, fin troppo proiettato nel futuro». E non è un caso che proprio ai tavoli del
Cantarelli si accomodassero alla fine degli anni Ottanta quelli di
Slow Food, in testa
Carlin Petrini: il ristorante era ormai chiuso da anni, ma loro continuavano «a passare da
Peppino, nella bottega, per farci tagliare qualche fetta di sublime culatello, per un pezzo di parmigiano reggiano scelto tra i migliori in assoluto, e stappare una bottiglia come si deve». Lì, nel «luogo dell'anima» che era divenuto appunto un modello, è nata la guida
Osterie d'Italia. Ha scritto
Petrini in una dedica speciale sulla prima edizione, anno 1990: ««Questo libro è stato progettato a Samboseto, là dove
Mirella e
Peppino Cantarelli hanno dimostrato come si possono raggiungere alti livelli nell’arte della cucina, mantenendo un forte legame con le tradizioni e un clima caldo d’osteria. A
Mirella e
Peppino, dunque, con riconoscente affetto».
Mirella non c'era già più, era mancata nel 1986;
Peppino la avrebbe raggiunta nel 1992.