Tre punti critici, tre questioni aperte che sono anche altrettanti snodi necessari per la ripresa della ristorazione italiana: il necessario rinnovamento della fascia intermedia, possiamo dire della cucina borghese, che uscirà da questa fase con le ossa più rotte di tutti; la rinnovata importanza della sala, in un momento in cui la richiesta non è tanto e solo il buon cibo, ma passare al desco delle ore serene e spensierate; l'evolversi di un mercato che sarà depurato dalle tante imprese ristorative improvvisate, dunque ora a fine corsa, e penalizzerà le tavole aduse agli esercizi di stile, agli ormai anacronistici ghirigori tecnoemozionali che sopravanza(va)no la sostanza. Max Bergami, dean di Bologna Business School e professore ordinario di Organizzazione Aziendale nell'Università di Bologna, è tra i pochi studiosi italiani che - da economista e da buongustaio, unendo insomma professione e passione - si dedicano da tempo all'analisi dei modelli di business delle imprese ristorative. Premette: «Non ho ricette magiche da offrire, non siamo di fronte a un quadro che possa prestarsi adesso a un esame definitivo. E poi, in questo momento per tanti assai difficile, è anche ingeneroso delineare prospettive che possano apparire tranchant...». Bergami è titubante, per il rigore che caratterizza l'intellettuale e il rispetto che va alle persone coinvolte in questi frangenti complessi. Ma noi insistiamo: le sue osservazioni, pur senza la pretesa di essere sistematiche né tantomeno definitive, possono contribuire davvero a delineare un quadro della ristorazione italiana prossima ventura, post-Covid. Lui è sempre citato da Massimo Bottura tra coloro che per primi hanno fatto luce su pregi e difetti intrinsechi del settore...
E allora, ecco le sue parole.

Max Bergami durante una cerimonia di laurea
LA CRISI NON COLPISCE TUTTI ALLO STESSO MODO - «Il futuro è molto incerto. Sicuramente tanti hanno preso una forte botta, ma non con la stessa intensità ai vari livelli della ristorazione. Prendiamo ristorantini easy, pizzerie al taglio, "kebbaberie": hanno un modello di business molto flessibile, clientela giovane, sono poco esposti in termini di investimenti. Non soffriranno più di tanto. Poi ci sono, all'opposto, gli stellati, o comunque i locali posizionati nella fascia medio-alta e alta. Credo che anche loro, in prospettiva, non dovrebbero avere enormi problemi; so che qualcuno oggi traballa un po', ma è normale. Per loro il distanziamento sociale non è una novità, non hanno mai avuto un tavolo sopra all'altro; all'
Andana, se
Enrico Bartolini volesse, potrebbe anche aggiungerne, sfruttando tutti gli spazi. I problemi seri si presenteranno invece per la ristorazione intermedia, alle prese con una duplice questione: le misure di sicurezza e i problemi economici del segmento di clienti di riferimento; si vedrà a settembre, non subito, perché tra iniezioni di liquidità e cassa integrazione le imprese ora sono riuscite bene o male a tirare avanti, c'è stato un rallentamento generale che, nell’insieme, non ha impedito la ripartenza. Gli effetti reali della pandemia emergeranno dopo l'estate. Si tratterà anche di capire quando il Covid-19 si fermerà o tornerà a galla; solo dopo una soluzione della crisi sanitaria partirà una vera normalizzazione».
IL TURISMO - «Discorso a parte merita la questione del turismo. Parlavo l'altro giorno con
Gennaro Esposito, lui ha ripreso l'attività in maniera seria e focalizzata. Ancora una volta, non saranno i "big" a essere granché penalizzati. Guardando invece a una fascia più bassa, in termini di spesa media, la contrazione della domanda turistica, soprattutto quella internazionale, è fatto grave. Anche qui, questa crisi si somma al problema preesistente dell’eccesso di offerta: la "popolarità" della cucina ha fatto sì che vi siano state in questi anni aperture poco ragionate, senza ossigeno sufficiente per resistere o basate su modelli di business improvvisati. Sono azzardi che ora vengono a galla e diventano un monito: attenzione a investire i risparmi di una vita, la liquidazione o l'eredità della zia in un'impresa ristorativa. È bene penarci perché un ristorante non è una cosa semplice, anzi è molto difficile dal punto di vista gestionale».
L'OFFERTA - «Altro tema è quello che riguarda l'offerta "dentro" al piatto, ossia lo stile di cucina. Può essere anche una mia idiosincrasia personale: ma vedo tanti esercizi di stile inutili, probabilmente derivanti anche dalla spettacolarizzazione della cucina, prevalentemente in televisione. A volte mi chiedo: perché? Perché questo accostamento? Perché questa presentazione barocca? Credo che davvero sia ora di andare verso una semplificazione, che non significa banalizzazione né freno alla creatività, ma evitare scelte fini a sé stesse. Il mercato, è vero, presenta una domanda anche per “famolo strano", ma ormai sono cose che interessano solo clienti occasionali per cui l’eccezionalità di una cena deve essere anzitutto la sorpresa. Questa fase può rappresentare l’occasione per ritrovare maggior purezza dei piatti, nel medio periodo quindi potrà venirne fuori anche una tendenza positiva. Forse ha ragione
Fulvio Pierangelini quando parla di
verità». (Leggi:
Fulvio Pierangelini ci racconta quale sia per lui il senso della cucina, anche dopo il Coronavirus).

Beppe Palmieri e Massimo Bottura
IL DELIVERY - «Può avere un futuro? Credo proprio di sì.
Beppe Palmieri con
Panino Mini-Market ha fatto una performance straordinaria durante la pandemia, diventando un esempio e un monito per tanti. La tuta gialla, i prodotti, le consegne
door-to-door, le storie su Instagram... Fantastico. Poi penso a
Gianpaolo Raschi, che durante il
lockdown ha tenuto aperto il proprio laboratorio consegnando per la provincia di Rimini piatti deliziosi. Lui aveva capito già da prima come la forza della cucina creativa sia oggi nel basarsi sul prodotto, nell'essenzialità, nel legame col territorio, nella semplicità, senza voler stupire a tutti i costi».
LO SVILUPPO IMPRENDITORIALE 1 - «La ristorazione italiana ha avuto un certo sviluppo imprenditoriale in questi ultimi anni, ma senza crescere dimensionalmente più di tanto. Ormai molti nostri chef hanno il proprio
next door; penso a
I Banchi di
Ciccio Sultano, all’
Uovodiseppia di
Pino Cuttaia o a
Il Clandestino di
Moreno Cedroni: luoghi magici, ma non arrivano al "peso" dei grandi gruppi francesi o degli
Hospitality Management Groups americani. Per seguire le orme di questi ultimi, serve una modalità diversa. Occorre acquisire la consapevolezza di dover aggregare al proprio team professionalità e competenze complementari. Ricordo che durante un convegno de
Le Soste svoltosi alla
Bologna Business School , ormai quasi una decina di anni fa, ci collegammo con
Daniel Boulud, che già allora aveva creato una propria società dove c'era chi si occupava di finanza, chi di logistica, chi di marketing; c'era una parte dedicata alla gestione delle risorse umane, un'altra all'approvvigionamento centralizzato, e poi allo sviluppo del brand, alla formazione di sala e cucina, il tutto al servizio di una ventina di locali. Uno che si sta muovendo bene in Italia è certamente
Enrico Bartolini. Al di là de
Le Calandre, gli
Alajmo fanno cose bellissime, come a Parigi, a Venezia e a Marrakech, ma potrebbero crescere molto di più. Poi c'è anche da fare questa osservazione: nei ristoranti di
Alain Ducasse nel mondo non è che venga proposta una cucina necessariamente sorprendente, non c’è la necessità di stupire sempre con la creatività: sono locali con un ottimo servizio dove si mangia molto bene, grazie a piatti comprensibili. Secondo me noi siamo ancora a metà del guado in questo senso. Una certa sistematizzazione della parte migliore del nostro patrimonio enogastronomico, quella legata ai prodotti e alla cultura alimentare, potrebbe fornire ancora un grande potenziale di crescita. Le consulenze sono un modo per monetizzare le proprie competenze nel breve termine, ma non guardano troppo lontano».
LO SVILUPPO IMPRENDITORIALE 2 - «Siamo il paese dei borghi e dei comuni. Se tra Bologna e Modena ci mettiamo a discutere la ricetta dei tortellini, ogni tre chilometri scopriamo una verità diversa. L’assenza di grandi gruppi di ristorazione o di catene di locali è dunque legata alla cultura del nostro territorio. Le grandi organizzazioni probabilmente non sono un modello adatto a questo Paese. Penso a quello che ha fatto
Eataly: ogni store ha un'offerta ristorativa diversa, nemmeno lì c'è replicazione. E dunque ragionevole concludere che è l'Italia in sé a essere così. Quindi le prospettive reali di sviluppo dimensionale stanno semmai nell'allargamento internazionale della nostra cucina. In questo senso, il modello delle
Osterie Gucci di
Massimo Bottura è molto interessante; ho sempre pensato che retail della moda e dell’alta ristorazione potessero trovare un punto di incontro. E anche il caso di
Niko Romito con i
Bulgari Hotels and Resorts: a novembre dello scorso sono stato
al suo ristorante di Shanghai e ho mangiato italiano meglio di quanto non mi capiti spesso qui. Non è un risultato da poco».
LO SVILUPPO IMPRENDITORIALE 3 - «Un'altra esperienza interessante è quella dei
Cerea, che stanno proponendosi per la ristorazione aziendale. È uno sviluppo da seguire. Loro non ne parlano molto, perché sono intelligenti e sanno che esiste un rischio di aspettative troppo alte, dovuto al fatto che qualcuno possa aspettarsi di mangiare in azienda come al
Da Vittorio a Brusaporto. Insomma, prevengono un possibile effetto di
mismatch di aspettative, utilizzando un marchio specifico. Sono bravissimi».
L'IMPORTANZA DEL SERVIZIO - «L'ultima osservazione che voglio fare: la crescente importanza del servizio. Se ti prendi la briga di andare in un ristorante anche con questi chiari di luna, ben sapendo che c'è un pur minimo rischio perché si è a contatto con gli altri, devi avere una bella esperienza, vuoi essere trattato bene. Vuoi esser rassicurato e coccolato. Serve insomma una sala che sappia mantenere le promesse che fa. Come dicevo, sono osservazioni banali, ma la possibilità di superare questo momento c’è e dipende soprattutto dagli imprenditori della ristorazione, perché non mi aspetto troppo dagli aiuti pubblici».
«Ogni tanto mi chiedo cosa penserebbe di tutto questo Stefano Bonilli».
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