Pesce frollato fino a un mese meglio del pesce fresco? La famiglia dei paperi della Disney direbbe garagulp, che vale un doppio e triplo gulp. Più o meno l’equivalente dell’espressione sulla faccia di Gianfranco Pascucci, mattatore del Pascucci al Porticciolo di fronte al collega Joshua Niland, l’australiano che ha sconvolto la platea di Madrid Fusión polverizzando le certezze acquisite sul pesce, leggi Il pesce? È migliore se NON è fresco. Rivoluzionarie tecniche di maturazione. Un verbo di portata rivoluzionaria enucleate nel suo The Whole Fish Cookbook. La verità rivelata, e dimostrata, di Niland ha impresso una scossa tellurica ai cuochi del mare, elemento nel quale Pascucci si muove agevolmente da più di un po’. «Bisognerebbe provare», dice, mentre clicca sul tasto buy it now che gli porterà il libro a casa, per capirci di più. D’altronde, è il grande momento delle letture, vista l’aria che tira.

«Quello che sappiamo, o meglio, che sapevamo fino a oggi è che una spigola di cinque chili non la puoi lavorare se non dopo due giorni, perché la carne è durissima, devi lasciarla a frollare per il tempo che ci vuole. Forse l’analisi di
Niland è partita da qui. Ma spingersi oltre è un fatto completamente nuovo, assai interessante che apre molte possibilità, certamente da indagare». E da uomo di mare, abituato a pesare le bestie con gli occhi, i suoi, aggiunge: «Bisogna capire cosa accade sul piano del sapore, perché la storia poi è tutta lì». Al netto di ogni informazione ulteriore il cuoco con i piedi nell’acqua nel mare di Fiumicino centra la questione. La premessa delle ricerche sul
fish aging del collega australiano è che la frollatura è possibile solo sui pesci di grossa pezzatura, desquamati, dissanguati e rapidamente eviscerati, dunque appesi “con un gancio in una camera con temperatura tra 0 e -2 gradi, senza alcuna ventilazione e minima umidità”. Assodato che i nemici giurati della maturazione sono proprio l'umidità, acqua, ghiaccio. E questo
Pascucci lo sa bene.
«Lo dico da anni, in ogni occasione utile, tutte le volte che mi è capitato di tenere una lezione ma anche nelle conversazioni informali: il ghiaccio sul pesce non serve a niente, lavorare il pesce bagnato è un danno e l’anticamera dello spreco», altra parola chiave nel lessico di
Niland. «Innanzitutto c’è una proliferazione batterica – s’infervora
Pascucci – il tagliere stesso, se non è asciugato per bene si mischia al sangue e diventa un brodo di coltura di batteri. Idem per il ghiaccio: in quanti mettono del ghiaccio salato? Il più comune fra gli errori è lavare il pesce con l’acqua dolce, il sapore va a farsi benedire, chiaro».

Calamaro arrostito, infuso di calamaro, salsa alle erbe verdi e alle radici, daikon e parmigiano. Fantastico piatto di Pascucci (foto Tanio Liotta)
Un bignami delle buone pratiche del cuoco di mare che alla tavola de
Pascucci al Porticciolo si traduce in piatti-icona di magnifica semplicità come il
Calamaro arrosto (testura carnosa e collaginosa)
, radici, erbe di macchia, in pairing con un infuso di frattaglie di calamaro tostate e infuse, dosate con un quid di cipolla bruciata e anice stellato. Semplicità, si fa per dire: «Il
Loligo vulgaris del Mediterraneo è un campione imbattuto di dolcezza. Ma per preservarne intatte le qualità, lo sciacquiamo in acqua salata freddissima, poi bisogna asciugarlo per bene, mentre si asciuga sotto la ventola gli togliamo le pellicine interne, in seguito va scioccato termicamente in acqua salata per dieci secondi e asciugato nuovamente. Si tratta di passaggi in rapidissima sequenza. Solo a quel punto lo tagliamo sul tagliere (asciutto), e gli togliamo la parte esterna della pelle, tipo prosciutto. Basta rifletterci un secondo: il calamaro è un tubo con dentro gli organi vitali, dalle pareti termoresistenti. Quando lo sezioni rimane un po’ appiccicoso, si griglia da un lato ma dentro rimane quasi crudo».

Niente ghiaccio, niente acqua, niente spreco. Del calamaro non si butta via niente. Non solo. «Noi cuochi italiani siamo figli di una tradizione, le cucine regionali di mare o di terra sono tutte frutto dell’ingegno della fame, e con gli scarti del pesce c’abbiamo sempre fatto i sughi, i brodi, i ristretti, i fondi, la zuppa di testa. Il fegato di pescatrice? Una cosa stra-buona che io faccio al cartoccio. Le trippe. Ma se spostiamo lo sguardo su scala planetaria, l’appello a non buttare via niente ha un senso, anche perché il mare si va svuotando pericolosamente». Sul punto,
Niland-Pascucci certamente d’accordo. In quanto a frollare il pesce: «Ci metterò le mani», parola del
Gianfranco nazionale.