Affondare gli scarponi nel suolo delle risaie della Piana di Sibari, vuol dire affondare anche il naso della propria curiosità in una delle più belle storie agricole del Sud. Storia antichissima e quasi sconosciuta, oggi avvincente e carica di futuro, è una di quelle che si potrebbe non esitare a definire sentimentali, nel senso - affidandosi alla Treccani - "che descrive, rivela, ispira sentimenti delicati e gentili", come sempre sanno essere le relazioni intime tra l’uomo e la sua terra.
Tanto che sembra proprio di sentirsela contagiare, di sentirsela salire nel petto, la pienezza di questo innamoramento, mentre Giancarlo Praino ti racconta - in un fiume di parole - com’è stato che gli è capitato il riso nella vita, com’è stato che l’ha coinvolto al punto da spingerlo a consegnare la sua intera sorte imprenditoriale all’avventura di tornare a seminarlo in Calabria, com’è stato che - dopo averlo seminato - il cuore non gli ha lasciato altra scelta che quello di darsi da fare per chiuderne la filiera, per rifondarne la dignità e l’identità e così rimettere queste terre sulla mappa di quelle capaci di esprimere una vocazione di eccellenza per questo tipo di produzione.

Maria, Giancarlo e Sara Praino
Rimettere, sì. Perché il patron di
Magisa - che oggi ha lasciato l’azienda nelle mani delle sue tre figlie
Sara, Maria e
Giusy - non smette di ricordare che il riso nella Piana di Sibari non lo ha certo inventato lui: è un primato che non gli interessa, quanto gli interessa invece che si noti, che si dica, che giunga a diventare risaputo che fu per questa via, in Sicilia e in Calabria, che gli arabi ne introdussero la coltura in Italia, portandola dall’Egitto.

Coltivazione del riso a Sibari
«E dagli anni Cinquanta sono stati in tanti a ricominciare a coltivarlo - racconta
Giancarlo - Nessuno, però, con l’intenzione di trasformarlo. Tutto quello che veniva prodotto partiva subito per il Nord, dove finiva sotto altre insegne. Ma che senso aveva, mi sono chiesto a un certo punto, non provare a tener alta la nostra, di insegna, e scommettere sulla possibilità di trasformare in un marchio il nostro riso?». Così nel 2004, forte della lunga esperienza familiare nell’agricoltura in questa zona, ha coinvolto e convinto le sue giovani donne a gettarsi insieme nella sfida: nei primi ettari di Vappepiana, che ora sono diventati 450, ha cominciato a piantare prima l’Arborio, poi il Carnaroli, poi il Karnak e poi ancora l’Originario, il Gange, il Rosso solitario, convincendosi - man mano che la qualità aumentava - della necessità di affrettarsi a chiudere la filiera fondando la propria riseria, di cui oggi insieme hanno voluto fare un gioiello di innovazione tecnologica, come puro supporto a un ciclo di processi rigorosamente artigianali di lavorazione, come la classica pilatura a pietra.

Maria Praino nella risaia
L’idea dei
Praino è sempre stata chiara: «Se è vero che qui possiamo dar vita a un riso ben migliore di quello comunemente in uso nel mercato italiano, dobbiamo farlo e dobbiamo diventar bravi a promuoverlo».
Ben migliore, sì anche in questo caso. Perché che quello di Sibari si candidi ad essere il miglior riso d’Italia ormai anche i tecnici cominciano a sostenerlo. E chi lo produce non può che aggiungerci un po’ del proprio orgoglio e delle convinzioni maturate in tanti anni di lavoro tra i campi. «Nemmeno questo però è merito nostro», dice Giancarlo Praino: «Il merito è tutto di madre natura».

Proprio questa Piana racchiusa tra la Sila e il massiccio del Pollino, infatti, dopo le bonifiche che l’hanno sanata dall’eccessiva salinità dei suoli per riportarla alla fertilità che aveva spinto già i Greci a fondarvi una delle più importanti delle proprie colonie, è oggi un microcosmo ideale per il riso: solcata dai corsi del fiume Crati, raccoglie dalle montagne le acque pure che in primavera vengono convogliate sui campi fino a ricoprirli, affinché possano trovarvi dimora i semi che potranno - da quel momento in poi - godere degli eccezionali vantaggi legati all’intensità del sole, alle temperature miti, al vento che viene dal mar Ionio, alla sostanziale assenza di qualunque condizione per lo sviluppo delle malattie (anche grazie a qualche accorgimento nel lavoro agricolo, come il caro vecchio principio della rotazione), fino ad arrivare alla piena maturazione e alla raccolta che avviene tra settembre e novembre.
E non a caso la grande famiglia di
Magisa (i
Praino che la guidano, e
Daniela e
Paolo Rizzo che ne condividono l’impresa) ha scelto proprio la fine del raccolto di quest’anno per accompagnare - simbolicamente, dal chicco fino alla confezione nuova di zecca - il battesimo dell’ultima nata:
Jemma, un’inedita varietà di riso nero selezionata su misura di questo microclima, grazie alla collaborazione con l’esperto di genetica agraria
Giandomenico Polenghi, di cui l’azienda manterrà la produzione in esclusiva per i prossimi dieci anni.
«Perché già i precedenti dieci studi sul territorio e ricerche sul miglioramento genetico ci hanno consentito di darle vita - conferma proprio
Polenghi - Una nuova varietà di riso a pericarpo nero, aromatico. Una sperimentazione che da subito ci ha resi sicuri che porteremo sulla tavola di ogni casa, in ogni parte del mondo
Jemma arriverà, anche un po’ dell’essenza della piana di Sibari e della sua specificità».

Foto di gruppo con gli otto cuochi della delegazione Apci Calabria, capitanati da Francesco Pucci
Col suo profumo spontaneo che ne annuncia il corpo robusto e la delicatezza del gusto,
Jemma sprigiona esattamente quell’aromaticità che promette. Un gusto così straordinariamente intenso, che meritava di essere festeggiato subito in cucina, come hanno fatto per il suo battesimo otto cuochi della delegazione
Apci Calabria, capitanati da
Francesco Pucci,
con un percorso di progressivo disvelamento che dalle trame della
Focaccia con farina di Jemma con “piscicilli” e stracciata di
Pascal Barbato, arrivato per l’occasione dalla vicina Puglia, e del
Bottone di Jemma al baccalà mantecato e pomodorino confit di
Francesco Luci, è giunto fino alla sua più schietta e saporita versione: il
Riso Jemma al salto con crocifere firmato da
Giovanni Chiaravalloti, un incontro semplice con le verdure di stagione che ha chiuso il cerchio di quest’esemplare filiera di biodiversità territoriale.

Focaccia con farina di Jemma con “piscicilli” e stracciata di Pascal Barbato

Bottone di Jemma al baccalà mantecato e pomodorino confit di Francesco Luci

Riso Jemma al salto con crocifere firmato da Giovanni Chiaravalloti
Figlia della terra, del colore dell’ebano,
Jemma non poteva che essere femmina, come l’orgogliosa dirigenza di
Magisa, e come il cucciolo di cicogna di cui porta il nome, nata al suo fianco e nel suo stesso giorno, grazie al grande lavoro che la
Lipu sta facendo a tutela delle specie rare in questi ecosistemi: entrambe sono oggi il simbolo del vigore della natura che, laddove l’uomo accetta di indietreggiare per lasciarla compiere, si riprende da sola bellezza ed armonia.