Dopo il primo capitolo curato dalle allegre mani dello chef Andrea Ribaldone, Identità di Pasta prosegue il suo tour nel mondo di Monograno Felicetti e della grande cucina d’autore con lo chef bistellato Marco Sacco e la sua Cacio e pepe di lago.
L’esaltazione del territorio prende forma non solo nella materia prima, ma anche in una solida e policroma rete-comunità, Gente di Lago, con la quale lo spirito d’acqua dolce di Sacco condivide problematiche, ma soprattutto prospettive «perché nonostante il lago sia un bacino chiuso, ogni fiume confluisce, alla fine, in un mare» di possibilità. Un pensiero che vede evaporare l’ingiusto sigillo di «cugino povero del pesce di mare» ascritto troppo a lungo al dolce parente.
La diversità è alternativa, mai privazione: è la sensibilità di riconoscere che sotto un’acqua "povera" c’è un mondo che vive e dona vita in superficie. Dopotutto, è la forza di un obiettivo a tracciare i sentieri più sorprendenti. Così, in questo elemento limpido s’intersecano due mondi: la pasta e il pesce di lago. Se infatti, il grano dello
Spaghettone conserva nell’anima il sole delle Murge, l’acqua delle Dolomiti ne impreziosisce l’impasto e restituisce al palato una porzione di tersa purezza dell’aria, di fresca roccia contaminata piacevolmente da un intenso sentore di pane cotto.

Marco Sacco a Identità di Pasta tra Eleonora Cozzella e Silvestro Zanella
La
Cacio e pepe di lago è una tripla espressione di profondità: pensiero, origine e gusto. Pensiero perché la cucina è innanzitutto ricerca, un sentiero che lo chef percorre sostituendo la componente casearia di questo primo piatto iconico con l’intensità salina del
missultén, l’agone, uno tra i più grassi esemplari lacustri.
La sapidità, profonda anch’essa, è restituita dal processo di essiccazione a cui l’agone è sottoposto una volta eviscerato e messo in salamoia. Pescato in estate, uno strato di pesce si alterna a un tappeto d’alloro e conservato nei mesi a seguire: l’estensione dell’intensità è un dono del tempo, la naturale conseguenza della quantità d’acqua evaporata ed è così che un agone diventa
missultén, il cacio ‘virtuale’: si fonde nel burro, insaporisce il latte e davanti a occhi golosi viene ridotto dal moto circolare e leggero di
Silvestro Zanella, al fianco dello chef da ben tredici anni.
A parte, in acqua questa volta bollente, vien buttato a raggio lo spaghetto, un gesto innato per l’italiano, ma mai scontato. Otto minuti dopo gli spaghetti son pronti per scivolare in padella. Trattengono parte del loro amido che non si vuole far disperdere nell’acqua e coccolati dal "cacio", raggiungono il giusto grado di cottura: l’
al dente, infatti, ha il colore dell’oro. Il pepe è macinato sul fondo del piatto, profuma di vin rosso e montagna, poi tocca al nido di pasta con il
cacio morbido e, in ultimo, a mo’ di bottarga, vien grattato il pesce in tutta la sua sapida secchezza. Ed ecco il profondo più atteso: l’assaggio del territorio, il piccolo lago, portato in un piatto a Milano.