Parlare oggi di globalizzazione è banale, ma non si può non evocarla di fronte alla formidabile velocità con cui tecniche modi culture tradizioni stili culinari finiscono nel frullatore planetario. Identità Golose ha offerto in vitro il quadro delle dinamiche. Emblematico il caso dello chef giapponese Yoshi Takazawa che ha presentato la sua “versione moderna della cucina italiana”, ovvero un adattamento della nostra cucina alla sua personale interpretazione: le vongole in bianco, la caponatina, la caprese, il tiramisù, la carbonara, il minestrone in chiave Japan…
Anche lo spagnolo Quique Dacosta ha spiegato l’influenza della nostra sulla sua cucina divertendosi a dare una vulgata degli spaghetti alla puttanesca: un composto di salsa olandese acida fuoriuscita da un sac à poche in forma di spaghetti, “condito” con una salsa pilpil a base di pomodori secchi e origano affumicato.

Il valenciano Quique Dacosta ha proposto la sua versione degli Spaghetti alla puttanesca
Da tempo ormai i piatti della nostra tradizione danno il là, in patria e fuori, a un totale rimescolamento delle carte. Ma fino a che punto è lecito smontare una tradizione senza trasformarla definitivamente in altro? Mi sono più volte posta la domanda nel corso delle tre giornate. Anche quando
Alessandro Negrini e Fabio Pisani hanno rivolto il loro omaggio a
Nadia Santini con un piatto di tortelli farciti con carote di Polignano, mostarda di cetriolo e mandorle amare. Ricordava
Pisani che così fece una volta anche
Nadia: a corto di zucche usò le carote.
Ovvio che ogni cuoco debba decidere da sé quali limiti darsi e credo che i tanti i giovani presenti in sala se lo siano domandato a ogni volger di intervento: di quanto spostare l’asticella quotidiana? Consegnarsi a tecniche e ingredienti inesplorati alla ricerca di nuovi sapori giocando magari con la cucina thai o con quella messicana (a proposito, molti tacos nuova maniera si sono visti, come quelli di Enrico Crippa o di Quique Dacosta con lo spagnolo che si è esibito anche in un gazpacho giapponese). O presidiare gli scampoli di tradizione mantenendosi in un recinto di provata fede gastronomica?

Henrik Yde, danese esperto di cucina thai e cinese
È vero, ha ragione
Massimo Bottura: la tradizione non ha poi così rispetto per le materie prime. Ma si può emendarla senza scalzarne il senso? Se introduco la farcia dei tortelli di zucca nel quadratino di pasta destinato a un agnolino non cambio forse la percezione di quel tortello e dunque il suo valore? Tutti ormai passeggiamo in un supermarket di tecniche e suggestioni planetarie dove le nostre tradizioni locali rischiano di essere solo un tocco esotico per divertissement di ogni tipo o nuove esplorazioni. Noi, del resto, non ci comportiamo diversamente nei confronti di altre culture: proviamo a fare piatti foresti con una certa approssimazione degli ingredienti e seguendo tracce non necessariamente così fedeli all’originale.
La cucina trascende ormai le tradizioni di ogni paese. E di ogni paese siamo portati a scegliere i piatti meglio declinabili secondo un sovralinguaggio universale. Abbiamo davanti a noi una gastronomia sempre più inclusiva in una collisione di culture che spalanca orizzonti enormi. Se però devo intravvedere un orizzonte vicino e rassicurante è quello indicato dal newyorchese Jeremy Bearman nel suo lavoro gomito a gomito con la nutrizionista Kristy Del Coro.
Loro se non altro costruiscono la loro cucina su un canovaccio tutto mediterraneo dove la scelta di ogni ingrediente è dettata da incontrovertibili ragioni dietetiche e nutrizionali. Raccontavano di aver provato per caso le linguine di farro di Felicetti e di averne misurato la qualità gastronomica e nutrizionale. Le hanno così condite con una crema di cavolfiore emulsionata con un brodo, pure di cavolfiore, arricchito dal sapore (e dal calcio!) delle croste di Grana Padano. Un perfetto spot della nostra tradizione offerta nella sua sostanza.

Mai così internazionale la composizione della platea
A ben riflettere, andava in questa stessa direzione anche il consiglio molto pratico che la chef thailandese
Bo Songvisava ha dispensato mentre preparava un piatto dove era prevista la salsa di pesce: «Quando la comprate assaggiatela su un riso in bianco per capire se è troppo dolce o troppo salata. Allo stesso modo in cui degustereste un olio extravergine su un pezzo di pane». Preziosa si è rivelata anche la lezione di
Henrik Yde del
Kiin Kiin di Copenhagen che ha spiegato come fare in casa la salsa d’ostriche o il latte di cocco. Oggi è più che mai necessario prendere confidenza con gli ingredienti di altre culture, capirli, farli propri per assaporare sino in fondo il senso delle diverse cucine.
Direi ancora, per concludere, che l’omaggio a Fulvio Pierangelini si è mostrato anche da questo punto di vista quanto mai opportuno. Se c’è infatti uno chef che ha dato prova della massima e più naturale confidenza con ingredienti di altre culture – leggi per esempio la sua conoscenza e l’oculato uso delle spezie – questo è stato proprio Fulvio. In tempi non sospetti e con risultati, a mio parere, ancora insuperati.