Dopo fiumi di parole, i fatti; la realtà dopo i sogni. Con una certezza: la Michelin continua a premiare la cucina italiana. E a noi italiani, sotto sotto, un po’ rode perché per una volta ancora dobbiamo ammettere che i cugini sono milioni di volte più bravi di noi in materia di comunicazione e marketing.
Un nuovo 3 stelle, Norbert Niederkofler in Alta Badia; tre nuovi 2 stelle, Andrea Aprea a Milano, Matteo Metullio pure lui in Alta Badia, e Alberto Faccani in Romagna. Ventidue le novità a livello di una singola stella e retrocessioni ridotte al minimo. E, per di più, nemmeno tutte per demerito perché, ad esempio, Carlo Cracco a Milano chiuderà a Natale per riaprire in tutt’altra sede forse a gennaio, magari a febbraio. Aveva senso lasciarlo a due come se nulla stesse per accadere? Sette bocciature in tutto e non più una ventina come eravamo abituati, complici anche diversi ko economici. Segno che la crisi morde meno il settore e la gente torna a spendere.

Christoph Bob con Michael Ellis. Per il tedesco trapiantato da anni e anni in Italia, una eterna stella mancata, mancata fino al 16 novembre, vale quello che i tifosi del Napoli scrissero su un enorme striscione al San Paolo per salutare il primo scudetto nel maggio 1987: «Scusate il ritardo»
Saldo positivo come non mai: da 334 insegne stellate, in un anno si è saliti a 356, solo la Francia, ovvio, ne vanta di più. E tutte in attività le 356 perché purtroppo accadeva che, chiusa la guida a inizio settembre, tra ottobre e novembre due o tre saracinesche non venivano più rialzate ma in pagina risultavano lo stesso. E’ il limite della carta stampata in un’era dominata dalla velocità del web.
Tanti pronostici e quasi tutti disattesi. Sì, a un certo punto era certo l’annuncio un nuovo tre stelle, il nono, ma chi? Si possono contare una decina di nomi e quello di Niederkofler c’era. Ma in tanti si pensava arrivasse al Sud, Nino Di Costanzo ad esempio. Poi, chissà, a uno chef meridionale che lavora però al Nord, Antonino Cannavacciuolo o Antonio Guida. E ancora Mauro Uliassi, un marchigiano da tanti immaginato in una volata con Norbert. O magari nulla.

Nella guida rossa 2018, alla voce Lecce, la Michelin dichiara di preferire i Bros' Brothers ai celeberrimi Blue Brothers però nessuna stella per Floriano Pellegrino. Nella foto, una scena del film. Da sinistra: Dan Aykroyd, Ray Charles e John Belushi
La
Michelin continua a spiazzare, molto più che un tempo. Se ne infischia di quanto pensa la concorrenza e segue sentieri tutti suoi. Difficile dire che il Bibendum copi. Di certo nessuno si aspettava
Aprea,
Faccani e
Metullio salire a due, nemmeno i diretti interessati. E
Riccardo Camanini sul Garda o
Matteo Baronetto a Torino rimanere fermi a un macaron così come Fabio Abbattista a zero in Franciacorta.
Venticinque volti sorridenti al Regio di Parma e nessuno di una donna e questo va in controtendenza perché è sempre maggiore l’attenzione e gli spazi che cuoche e chef si stanno guadagnando. Venticinque promossi ma la mappa che disegnano si ferma a Roseto degli Abruzzi sulla costa adriatica e alla penisola sorrentina su quella tirrenica. Possibile che in Puglia, Calabria e Sicilia non vi fosse nessuno, magari stando un po’ più attenti nelle visite o più coraggiosi nelle

La voce pizzerie quando nella Michelin 2018 si arriva alle pagine dedicate a Napoli
scelte? Il testo, ad esempio, che a Lecce accompagna il debutto dei
Bros’ sprigiona entusiasmo, una promessa di stella («Ai
Blues Brothers noi preferiamo i
Bros’ Brothers»). Visto quanto è difficile fare qualità tutto l’anno lontano dai grandi centri, e considerate certe stelle al tramonto, io avrei rischiato.
Infine il tormentone pizza. Come anticipato a inizio novembre dal curatore Sergio Lovrinovich a Scatti di gusto, nessuna stella al più italiano e amato nel mondo dei piatti tricolori. Nella riserva indiana creata alla voce Napoli, ha fatto capolino Gino Sorbillo ma sette posti restano una quota da zero virgola... Una rondine a febbraio farebbe più primavera. E ancora nulla a Caiazzo. Semplicemente la cittadina casertana non esiste, quasi a voler far capire che il pianeta è in errore quando applaude Franco Pepe.
Alla domanda sui criteri per l’assegnazione della stella,
Lovrinovich ha risposto: «Sono gli stessi per ogni tipo di piatto: 1. Qualità della materia prima; 2. Tecnica di cottura; 3. Personalità della cucina; 4. Costanza nel tempo; 5. Rapporto qualità-prezzo». A me pare che sia un pokerissimo, un mezzo decalogo che calza a pennello a Pepe in grani come ai Tigli di
Simone Padoan, alla Notizia di Enzo Coccia e ai vari Berberè di Matteo Aloe fino al Saporé di
Renato Bosco o a quanto sanno costruire, lungo strade distinte, i fratelli Salvo. Probabilmente vale quanto
Helenio Herrera disse di
Gianni Brera che insisteva perché nell’Inter anni Sessanta schierasse
Giacinto Facchetti all’ala, senza farlo partire dalla difesa: «Ha ragione, ma poi direbbero che mi faccio comandare da un giornalista».