Se la carne appartiene alla storia alimentare dell’uomo sin dagli albori della specie, cosa vuol dire oggi metterla al centro della costruzione di nuove memorie? A un’interrogativo che coinvolge l’etica, la salute e la sostenibilità del pianeta insieme al più vasto capitolo dell’enciclopedia del sapere gastronomico, il quindicesimo congresso di Identità Milano ha dedicato la prima edizione di una sezione speciale, Identità di Carne appunto.
Dal capostipite della nouvelle vague della trattoria italiana, Diego Rossi, ai produttori che stanno investendo nella trasformazione tecnologica degli allevamenti, della trasformazione e della conservazione della carne, i protagonisti di domenica pomeriggio hanno costruito insieme le riflessioni utili a conoscere per decidere se, quanto e come mangiarla.

Diego Rossi con Federico Sisti

Tartare di pecora e bottarga di muggine
DIEGO ROSSI, FUORI DAL GREGGE - Una pecora intera distesa sul piano di lavoro e otto ricette sciorinate in 45 minuti per dimostrare uno dei teoremi della sua filosofia di cucina: gli animali si usano interi. Preferibilmente - come lui si diverte a fare - utilizzando l’intensità e la consistenza delle frattaglie per accompagnare e arricchire i muscoli magri. Il mattatore
Diego Rossi, con
Federico Sisti a fargli da spalla precisa e veloce, ha trasferito un’intera sessione di lavoro della cucina di
Trippa sul palcoscenico di
Identità di Carne: il rito della celebrazione della carne di pecora, con la sfilza di preparazioni a cui può dar vita. Prima due tartare, con le parti magre della coscia e piccole parti di grasso: «E basta così, con sale e olio, perché tanto nessuno di voi conosce il sapore della tartare di pecora».
Touchè. Ma non gli basta: le due versioni si completano rispettivamente con la maionese di cervella bollite e la bottarga di muggine. Poi è la volta della spalla, a cui tocca il destino di un vero e proprio
pulled lamb da sfilacciare e mischiare a uno dei suoi ingredienti feticcio: il
tamaro, una miscela di spezie di origine vicentina. La pancia finisce nel ragù per la fregola, con sopra il fiore sardo affumicato e - sempre, sempre - il limone per sgrassare e alleggerire. Quel che resta della coscia, insieme a fegato e rognoni, si trasforma in
crépinette da servire con crema di pere e verdure selvatiche. È l’ora del cuore, intero, cotto a bassa temperatura e poi passato alla brace prima di essere servito su una crema di aglio orsino e accanto alla minestra nera. E il midollo? Chi conosce
Rossi, sa che non poteva mancare: passato alla brace per pochi secondi, diventa la base di servizio per la parte più nobile della pecora, il filetto crudo, con sale maldon e tartufo bianchetto. La cena è servita, la pecora è finalmente uscita dal gregge.

Massimo Minutelli e Tony Melillo
LE NUOVE CARNI DI MINUTELLI E MELILLO - Più che servire nuove carni,
La Griglia di Varrone - prima a Lucca, dal 2006, e pochi anni dopo a Milano - ha avuto il pregio di far arrivare sulla tavola italiana quelle che nel resto del mondo nuove non lo erano affatto. «Conoscere razze diverse e cotture diverse, rompere i cliché» è stato sin dall’inizio il manifesto del fondatore
Massimo Minutelli, che lo ha raccontato insieme al direttore della sede milanese
Tony Melillo: e insieme hanno scelto due ricette che ne fossero rappresentative. La prima, una personalissima interpretazione del
pastrami: una tenace punta di petto di Black Angus addomesticata con un lungo massaggio di senape, miele e aneto, paprica e cumino, poi affumicata altrettanto a lungo coi trucioli di quercia e infine in forno, prima di essere affettata e servita dentro un leggerissimo
pan de cristal catalano. La seconda, un’
entrecôte di Rubia Gallega, esemplificazione di due grandi lezioni sulla carne: l’esperienza necessaria a valorizzare animali anziani - non meno di sette anni, come da tradizione locale, con lunghe frollature - e soprattutto cosa si può fare, se la materia prima è buona, quando per cuocerla non si usano altro che il fuoco e il sale.

Simone Cozzi osserva il lavoro di Oliver Glowig

Testina di vitello fritta, con finocchi, caffè e scampo
LA CARNE DI SIMONE COZZI TRA LE MANI DI OLIVER GLOWIG - «La qualità della carne dipende da sue soli elementi: dove si allevano gli animali e cosa mangiano. Quindi per sfatare il falso luogo comune che la carne faccia male, basta prestare attenzione a questi due soli requisiti, con lo scopo di far decrescere l'omega 6 e accrescere l'omega 3». Detto da
Simone Cozzi, sembra un gioco da ragazzi. La sua
High Quality Food distribuisce a migliaia di ristoratori solo prodotti che rispettano requisiti di tracciabilità della filiera e lavorazione controllata e ha da poco investito direttamente su un allevamento innovativo ad alto tasso di tecnologia che si è aggiudicato l’
Oscar Green di
Coldiretti. A
Identità di Carne Cozzi ha affidato le sue creature alle mani felici di
Oliver Glowig, che ne ha fatto materia per due elegantissimi
samples della sua carta di
Poggio le Volpi a Monte Porzio Catone. Per cominciare, un grande classico di ispirazione bavarese, la
Testina di vitello fritta, con finocchi, caffè e scampo, grande lezione di raffinato utilizzo del quinto quarto nell’alta cucina. E per finire, un accorato omaggio alla cucina laziale: un
Pollo e peperoni immaginato proprio per rendere giustizia ai polli di vigna cresciuti nei nuovi allevamenti rurali di
Cozzi. Su un fondo di brodo e salsa di peperoni gialli con paprika affumicata,
Glowig ha ridisegnato l’anatomia del pollo, giocando in tre cotture con la coscia, il petto e l’ala, accanto a un peperone
piquillo grigliato e ripieno con il trito della sovracoscia mescolato a capperi, olive e rosmarino.

Brasato di bresaola con carote e sedano, un'idea di Baronetto
MATTEO BARONETTO CON LA BRESAOLA METODO ZERO - Se non è scontato, soprattutto in un contesto di largo consumo, pensare a una bresaola di qualità, men che meno lo è pensarla come vero e proprio ingrediente di cucina. E se
Giovanni Porro, con il suo ispirato progetto finalizzato a produrre per la prima volta una bresaola senza additivi e senza conservanti, ha sconfessato il primo stereotipo,
Matteo Baronetto, con la sua altrettanto ispirata conoscenza della carne, a
Identità di Carne ha sconfessato anche il secondo. Il punto di partenza è una carne di altissima qualità,
wagyu nel caso specifico. In mezzo, c’è il
Metodo Zero che
Porro ha brevettato nel cuore della Valtellina per portare in un industria dalla sofisticata tecnologia alimentare l’essenza del lavoro artigianale: «Alla bresaola non servono più additivi, serve solo più tempo. Il tempo affinché il sale, l’unico ingrediente che usiamo per conservare, faccia il suo lavoro. Il tempo affinché si sviluppi la ricchezza aromatica. Il tempo affinché anche il colore, con l’affinamento, si riveli come quello della carne matura». Cosa farci, dunque, in cucina? Lo chef del ristorante
Del Cambio di Torino ha provato a dare la sua risposta: un brodo caldo, nel quale intingere ogni fetta di bresaola «per rinvigorire la carne e anticipare l’effetto del suo incontro con la saliva, nel momento in cui sprigiona più aromi», con accanto solo un assaggio di pomelo, tocco acido ben più avvolgente e morbido del tradizionale limone che spesso improvvidamente si unisce alla tradizionale bresaola.
E PER FINIRE, IL PROSCIUTTO DI GALLONI - Se la bresaola sembra un mondo tutto da riscoprire, il prosciutto crudo si riconferma anno dopo anno uno dei capisaldi dell’italianità nel mondo. Per questo
Carlo e Luca Galloni - una storia aziendale che si tramanda di generazione in generazione - non hanno bisogno di essere accompagnati da un cuoco sullo stage di
Identità di Carne, anche se a Parma stanno nel frattempo lavorando al progetto di un ristorante dedicato al loro lavoro e al loro territorio. «Mio padre diceva che per fare un grande prosciutto ci vuole una grande memoria e bella calligrafia», ricorda e racconta
Carlo Galloni, per dire di un’antica sapienza che da sempre si affida alla precisione delle prescrizioni produttive e alla necessità di strumenti di raccolta e analisi dei dati, antesignani della tecnologia che a distanza di decenni e dopo l’incendio che ha distrutto mezza azienda oggi ne contraddistingue il lavoro. «Tecnologia sì - precisano padre e figlio parmensi - ma se il prosciutto è buono, è solo perché c’è ancora una cosa che viene fatta rigorosamente a mano: la salagione. Ci mettiamo più di dieci anni per formare le persone che lo fanno, affinché arrivino ad avere nelle la sensibilità necessaria a non rischiare un margine di errore superiore ai cinque grammi». Mani dell’uomo, che costruiscono nuove memorie.