«Da Costa Volpino si sale a Volpino, poi Corti, Branico, Qualino, Flaccanico…» dice Riccardo Camanini a Identità Milano 2018. La destinazione del viaggio è Ceratello, «141 abitanti»; son territori descritti così: “Tutto a pascoli, a prati, a campi di biada con belle vigne, ed oliveti; ed ha anche dei boschi d'alto e basso fusto, sicché i suoi abitanti sono pressoché tutti dediti all'agricoltura, ed alla custodia del gregge. (…) I boschi sono feracissimi di tartuffole le più pregiate” (Maironi Da Ponte, Dizionario Odeporico, Stamperia Mazzoleni, 1819). L’abitato di Ceratello, a 813 metri sul livello del mare, è sorto nei secoli in una zona ricca di piccole sorgenti d'acqua provenienti dai prati soprastanti.

L'altopiano di Bossico con il lago d'Iseo sullo sfondo
E’ la
Frittole di
Camanini: il luogo in cui il tempo è sospeso, o riavvolto. «Gli uomini hanno baffi lunghi così», sorride lo chef. Vi scopre un’umanità vera, fiabesca, cristallizzata nella conservazione della propria tradizione agroalimentare. Ma non c’è solo Ceratello, «stessa storia anche sull’altopiano di Bossico, 10 minuti dalla Sovere dove sono nato. Lì è soleggiato tutto l’anno», racconta ancora lo chef del
Lido 84. Sono i due luoghi, Ceratello e Bossico, dove
Camanini s’è imbattuto con meraviglia «nella
bernia, o
sbernia che dir si voglia», perché Ceratello e Bossico hanno prati confinanti, 9 km in linea d’aria ma per raggiungere l’una dall’altra non c’è strada, sono su versanti opposti, bisogna ridiscendere verso il lago d’Iseo e si perdono 40 minutiì. Quindi anche le parole cambiano. Siamo nella Bassa Val Camonica, provincia di Bergamo.

La pecora gigante bergamasca (foto Slow Food Bergamo)
E’ bello scoprire su un vecchio dizionario etimologico che
bernia, o
sbernia, indicherebbe “
l’antica stoffa grossolana che facevasi in Irlanda (l'antica Hibèrnia), e il mantello che se ne fa”, dal francese
bornie,
berne. Ed è appunto una sorta di mantello, quello che
Camanini ha scoperto qui, con sorpresa. Ma di carne, «carne da pastore» per la precisione, quindi di quella pecora gigante bergamasca che non mangia quasi più nessuno “e se oggi sopravvive è solo grazie al mondo arabo, l’acquista dai pastori locali. Non è nemmeno un Presidio Slow Food e non compare neanche sulle ricette più antiche di Bergamo, se non in qualche castrato” (
Giulia Ubaldi,
Il Giornale del Cibo). Un alimento progressivamente abbandonato nel corso della storia.
Ma è pane fresco per i denti di
Camanini, che si esalta quando riesce a penetrare nei meandri sulla storia gastronomica italiana, persino quelli più reconditi, dal latino
Apicio (
Che lezione Riccardo Camanini, cuoco dell'anno 2017) al rinascimentale
Bartolomeo Scappi (
Camanini alle origini della cucina italiana), fino a qui, nel parco naturale dell’Alto Sebino, a ragionare di usi alimentari che non hanno nemmeno uno straccio di codificazione scritta e rischiano di diventare sapere svanito, sapienza secolare dispersa nel calderone frenetico della modernità. Per fortuna che c’è lui, quasi un cuoco antropologo.
Ripartiamo allora dalla
bernia, o
sbernia. «L’ho assaggiata per la prima volta lo scorso anno, prima non la conoscevo proprio». E’ il risultato di una tradizione pastorale che tesse l’esigenza economica con la caratteristica di gusto, tipica italiana, ossia è la risposta tutta nostra alla povertà: la ristrettezza economica aguzza l’ingegno gastronomico peninsulare, si fa di necessità virtù ma senza rinunciare al sapore, «a salvare l’aroma, il prodotto». Miseri magari, ma sempre con una buona forchetta. «Quando una pecora si azzoppava, non c’erano tempo e soldi per ingessarne la zampa. La abbattevano». Andava però conservata, preziosa dispensa di proteine per i mesi a venire. «La mettevano nel vino, con aromi. Poi appesa per settimane, all’aria aperta e tersa di qui, riparata dagli insetti con le
moscarole, sorta di reti dalla trama fitta. Si seccava quindi, e quando il pastore saliva all’alpeggio ne tagliava una fetta, ormai dura, coriacea, da sgranocchiare sui pascoli, o da grigliare accompagnata con la polenta, o ancora bollita, con cipolle e insalata dei campi». Un assaggio oggi troppo distante dalla contemporaneità, «la memoria gustativa non lo riconosce, io stesso ho fatto fatica a mangiarla: troppo salata, con un processo ossidativo importante... La frollatura influisce sull’assorbimento e il rilascio dei liquidi. L’aroma è davvero incisivo».
Cosa fa il cuoco italiano contemporaneo (quello intelligente, s’intende)? Non scimmiotta la Spagna o il Nord Europa, né rimane fermo attorno alla tradizione nostrana anche quando ormai fuori dal tempo, come in questo caso. Semmai la prende e ne propone una versione che possa proiettarla anche nel futuro. Così fa
Camanini. «Ho pensato alla
sbernia, a come renderla più armoniosa senza snaturarla. Andava addolcita. Ho pensato al miele per ingentilirla, ma non bastava, occorreva qualcosa di più. Serviva anche qualcosa che proteggesse la frollatura della carne, una sorta di calotta protettiva».
L’intuizione – che richiama da vicino il miele – è giunta durante un recente viaggio dello chef in Sicilia, «ho incontrato il grande
Corrado Assenza e mille altre persone.
Corrado mi ha fatto conoscere la cera d’api pura: incredibile, sa di propoli, di polline».
Ma ci torneremo, andiamo per gradi. Colando il miele sulla pecora, quest’ultima ne estrae il gusto, sorta di osmosi inversa. Ma la proteasi del miele dona anche morbidezza alla carne, senza farla seccare, «dopo tre settimane torna come fresca», e in più l’aroma mieloso s’attenua, risulta più equilibrato. «Poi ho chiesto aiuto all’artista Stefano Bombardieri, abbiamo ragionato sul ruolo delle api, sul loro legame con il mondo della pastorizia, E abbiamo recuperato appunto la cera, elemento sul quale mi aveva illuminato Assenza». La sbernia appiccicosa di miele viene rinchiusa in una sorta di “scudo” di cera d’api, quasi protetta dall’esterno in un processo di evoluzione gustativa ancestrale e insieme innovativo. Cera una volta la sbernia.
Oggi
Camanini immerge la pecora gigante bergamasca per 3 o 4 giorni nel vino rosso, con spezie e aromi. Quindi va a seccare per tre settimane all’aria, agli 800 e passa metri di Bossico e Ceratello, come da sempre si fa. Poi ancora tre giorni nel miele; infine per due settimane viene racchiusa nella sua bara di cera d’api «ma credo vi potrebbe stare anche per sei mesi, sto ancora provando» (per 23 chili di pecora, di un anno, servono 3-4 kg di miele e 25 di cera d’api). A questo punto la carne è come rinata nel suo feretro profumato: basta scalpellare via qualche pezzo di cera per trovarla lì sotto, color rosso sangue, morbidissima, lo chef la tocca ed è come se insinuasse le dita in una ferita viva, immagine insieme sensuale e impressionante.
Camanini ha riavvolto il nastro: quello della storia, a riscoprire una consuetudine alimentare; e persino quello della natura, perché ha ridato vita, tono, sapore, a ciò che era morto. Incredibilmente affascinante.
Il saldo finale di questo processo che sa di favola è una
cena del pastore completa, composta da 4 piatti. S’inizia con
Brodo di sbernia: «Griglio le parti secche della spalla di pecora per dare loro una nota affumicata. Quindi ne faccio un brodo (un litro di acqua ogni 2 kg di sbernia), che poi metto a raffreddare. Il gusto è simile a un brodo di prosciutto, ma più salino e aromatico»: diventa un’entrée con qualche goccia di olio all’estratto di alloro.

Tartare di sbernia con rognoncini di coniglio e chartreuse ridotta
Poi
Tartare di sbernia con rognoncini di coniglio e chartreuse ridotta, diciamo che è un secondo antipasto. «La carne della pecora ha questo profumo di miele e polline, ed è morbidissima, già sapida, non ha bisogno di apporto di sale».
Camanini la taglia finemente, «quasi un omogeneizzato», perché altrimenti avrebbe gusto fin troppo intenso e s’impasterebbe un poco in bocca. Serve croccantezza per dare al piatto una texture equilibrata, e grasso per renderlo armonico al palato. Lo chef li ottiene dal coniglio, che arrostisce classicamente col rosmarino, ne ricava un po’ di grasso («Mi piace giocare coi grassi "fuori contesto”, ad esempio una bavette di manzo con lardo di maiale») e ne utilizza i rognoncini, che fa quasi biscottare in padella «perché diventino croccanti, quasi caramelle». Finisce la preparazione con erba ruta officinale, una riduzione di liquore chartreuse per l’intensità balsamica che si sposa a quella dell’ovino, e capperi bresciani per la nota salina ulteriore.

Pasta in bianco di sbernia
Quindi
Pasta in bianco di sbernia: «Utilizzo le lumachine di grano duro, un formato quasi desueto, ed è un peccato». Per condirle prende un po’ di
sbernia, la frulla due volte con olio di semi, la fa decantare; frulla anche della carne di coniglio, poi lascia che riposi per separare la parte acquosa da quella grassa. Ne ricava un olio dal gusto concentrato col quale condisce la pasta, e qui
Camanini va controcorrente, «non la servo troppo al dente, perché deve avere una consistenza espansa, deve essere una coccola, un boccone morbido. Eppoi il pastore non lo avrebbe mai fatto, così preservo l’idea tradizionale», il tutto viene spolverato di formaggio, pecorino ovviamente.

La grigliatura della Coscia di sbernia grigliata con insalatina di erbe di campo, miele di elicriso e bergamotto, olio extravergine

Camanini con il suo Gilles Fornoni e Marco Bolasco, che ha presentato la lezione
Piatto finale,
Coscia di sbernia grigliata con insalatina di erbe di campo, miele di elicriso e bergamotto, olio extravergine. «Ho mangiato la
sbernia “originaria”, se grigliata è ancor più secca e sapida», improponibile insomma. Ma l’osmosi inversa col miele ribalta la partita: «Mi sono permesso di intervenire sulla tradizione per preservarla», chapeau. La carne, ora morbida e profumata, finisce sulle braci di legno d’ulivo, «il gusto è insolito, la polpa estremamente frolla, matura. Ingentilisco con le erbe che trovo nei pascoli, il crescione, la senape indiana (che è di Bergamo!), le insalate, ma che siano tutte coriacee, aromatiche, balsamiche. Poi miele di elicriso - «sembra un rosmarino, ha il profumo di liquirizia – e di bergamotto (anche qui
Assenza ci ha messo lo zampino?) «che veicola un’acidità citrica ma mantiene anche note amarognole». La griglia preserva una cottura al sangue, ma di una carne extrastagionata. «Un piatto che mi ha entusiasmato»