31-10-2024
Alla scoperta dei vini iconici dell'Alto Adige, tra storia, tradizione, ma anche evoluzione e sperimentazione
Cosa significa vino iconico? La domanda arriva da una tre giorni di approfondimento insieme al Consorzio Vini Alto Adige, dal tema appunto “Icon Wines”.
Facciamo una piccola premessa: il termine iconico, nel mondo del vino come dell’enogastronomia, ma un po’ in tutti gli ambiti comunicativi, è spesso abusato, sfruttato, giusto per aumentare l’attenzione riferendosi a un determinato prodotto.
Per quanto riguarda i vini dell’Alto Adige, invece, il direttore del Consorzio Eduard Bernhart offre una chiave interpretativa: «Per noi iconico significa avere uno stretto legame con il territorio, parliamo di vini rari, da uve autoctone o anche da uve legate al territorio, vini che hanno fatto la storia, legame con la nostra cultura, che rappresentano alto livello enologico complessivo. Non sono vini che devono per forza costare una cifra assurda…».
Il direttore del Consorzio Eduard Bernhart
Il concetto è chiaro, quindi. Possiamo quindi paragonare gli “Icon Wines” a gemme preziose che si incastonano in un gioiello, aumentandone il valore e attirando l’attenzione di chi le osserva. In questo caso il gioiello è il mondo del vino altoatesino, che ha effettivamente raggiunto ottimi livelli.
Per arrivare a questo quadro, però, è stato necessario del tempo. Ma soprattutto sono servite delle persone che hanno avuto lungimiranza, prendendosi anche qualche rischio.
Luis Raider nel vigneto dove è nato il Lafóa
Poi, nel giro di breve tempo, anche altri seguirono il loro esempio. Questo ha portato l’Alto Adige a un progressivo abbandono della Schiava, passata dai 4mila ettari degli anni Ottanta agli attuali 500, per puntare su varietà che potessero offrire maggiore qualità e longevità, per i rossi, ma anche e soprattutto sui vitigni a bacca bianca.
L'assaggio dei Cabernet Sauvigno Lafóa
Lafóa, da tempo, non indica più la singola vigna, ma la linea più alta dei vini di Colterenzio. Il Cabernet Sauvigno Lafóa 1997 è ampio, con note di caffè, tabacco e marasca, mentre in bocca è equilibrato e morbido. Il 2007 è molto elegante, con note di pepe nero, erbe officinali, con un sorso profondo e un tannino fine. Il 2016 ha una nota più erbacea e verde, seguita da un frutto rosso vivo e un’ottima acidità. Il 2021 è giustamente molto fruttato, teso, ma con un tannino presente ma non aggressivo.
Alois Clemens Lageder
Riprendendo anche le parole di Luis Raider, un altro produttore lungimirante è stato Alois Lageder, come anche racconta il figlio Alois Clemens Lageder: «Abbiamo iniziato a produrre lo Chardonnay Lowengang nel 1984 – spiega – All’inizio questo vino era uno scandalo, perché utilizzavamo le barrique oltretutto su un vitigno bianco. E la reputazione dei bianchi, ai tempi, non era la stessa di adesso… Successivamente, nel 1989, è uscita la prima annata del Cabernet Sauvignon Cor Römigberg: mio padre è stato tra i primi a credere in questo vitigno rosso, coltivato a guyot e non con la pergola».
Entrambi sono vini iconici, anche perché sono il simbolo di un cambiamento che per certi versi in Alto Adige è stato epocale. Lo Chardonnay Lowengang 2020 dimostra di essere un vino ampio ed elegante, dalla grande possibilità di evoluzione nel tempo. E l’annata 2004 è la dimostrazione di come questo Chardonnay sia longevo, con un’ampiezza e una profondità incredibile. Dall’altra parte il Cabernet Sauvignon dove un’annata 1997 risulta essere dopo quasi 30 anni assolutamente straordinaria. Il Cor Römigberg 2019 si slancia nella sua freschezza dei primi anni, anche se sempre con un’ottima struttura e tannini avvolgenti.
Martin Foradori Hofstätter
Non solo Cabernet Sauvignon, ma anche Pinot Nero e Pinot Bianco. «Ma esclusivamente nelle zone più adatte – afferma Martin Foradori Hofstätter (Tenuta Hofstätter) – Io sono vignaiolo, sono un uomo più da vigna che da cantina. Per questo è importante individuare le zone migliori per ogni vitigno. Al momento ho 58 ettari di proprietà, 70 da conferitori e 5 in Mosella».
Proprio per quanto riguarda le zone, Martin Foradori Hofstätter in degustazione ha giocato proprio con i diversi terreni. Prima degustando il Pinot Bianco Kolbenohof 2022, con le vigne che crescono su un terreno argilloso; a soli 250 metri di distanza nasce il Pinot Bianco Castello di Rechtenthal, un vino più verticale ed elegante, con vigne che nascono su ghiaia calcarea. Infine il terzo vino rimane per dieci anni sui lieviti, e quindi è un “fuori categoria”.
I vigneti di Tenuta Hofstätter
Stesso gioco sul Pinot Nero, che si concentra nella zona di Mazon, dove impressiona il Vigna Sant’Urbano, su un impianto a guyot del 1990, con terreno in prevalenza di argilla con poca ghiaia, a 350 metri di altitudine, che dimostra la grande complessità di questo vino. La novità arriva dalla vigna Herpsthoffel, con solo 8 anni di vita, ma a 450 metri di altitudine. L’annata 2022 dimostra una grande dinamicità e prontezza di beva, ma anche un buon potenziale. A 400 metri di altitudine, invece, si trova la Vigna Roccolo, sorta negli anni quaranta: eleganza e complessità nel bicchiere, per una 2018 che ha ancora tanto da esprimere. Infine, tornando a Vigna Sant’Urbano, l’assaggio di una fantastica bottiglia del 1995 dimostra come questo vino “iconico” abbia dalla sua storicità, tipicità e grande longevità.
Il presidente della Cantina Girlan, Oscar Lorandi
Ma allora, per i rossi, la Schiava è un vitigno minore? «È sempre stato considerato un vitigno povero – spiega Oscar Lorandi, presidente della cantina Girlan – Ma siamo stati tra i primi a uscire con una Schiava, o meglio una Vernatsch, che avesse un’idea di qualità. In questo senso può essere chiamato vino iconico, perché ha cambiato la storia, ha dato un impulso, una svolta. La Vernatsch Gschleier viene realizzata su 6 ettari, con terreno calcareo e con vigne che hanno dagli 80 ai 110 anni, abbassando le rese per ettaro. La prima annata è stata la 1975». E l’annata 2003 dimostra che, se lavorata con le giuste attenzione, la Schiava/Vernatsch può dare risultati sorprendenti: un vino avvolgente, pieno, mai pesante ma anche dalla grande beva. L’annata 2019 è indubbiamente più giovane, ma ha un grande potenziale per il futuro: buona fin da subito, ma che potrebbe dare molte soddisfazioni anche fra qualche anno.
Il Pinot Nero Vigna Ganger è un vino più “recente”, con la prima annata nel 2012, dove si è cercato sempre a Mazon da ricavare il massimo da questo vitigno in questa area. Il vino del 2014, annata spesso sottovalutata, si dimostra una grande sorpresa, dove vince l’eleganza. La 2021in anteprima ha un potenziale evolutivo incredibile.
Franz Haas VIII
Quando si parla di Pinot Nero in Alto Adige, è difficile non pensare a Franz Haas VII, scomparso nel febbraio del 2022. La sua eredità è stata raccolta dal figlio: «Il Pinot Nero è sicuramente il nostro vitigno di riferimento – conferma Franz Haas VIII – Lo Schweizer prende il nome dall’artista svizzero che disegnò le etichette. I vigneti si trovano tra i 500 e i 900 metri di altitudine. La prima annata è stata il 1987, uscito poi nel 1990, con 11 mesi di affinamento in legno piccolo, del quale 30% nuovo. Questa scelta era stata sicuramente innovativa e rivoluzionaria, per quegli anni». Nel bicchiere, il 2016 dimostra che si tratta di un’annata equilibrata, che sicuramente ha ancora molto da esprimersi. Il 2021, invece, è giovane ed esuberante, con un’ottima bevibilità e una struttura notevole.
Dall’iconico Schweizer al “nuovo” Pònkler, nato nel 2012 da un singolo vigneto. Sempre Pinot Nero, è un vino che vuole dimostrare come il singolo terreno possa dare un’espressione ancora più ampia e complesso di questo vitigno.
(1 / continua)
La seconda parte: L’Alto Adige e la rivoluzione dei vini bianchi. Anche da invecchiamento La terza parte: Tra storia e sperimentazione: le armi vincenti dei vini altoatesini
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giornalista de La Provincia di Como, sommelier e appassionato di birra artigianale. Crede che ogni bicchiere di vino possa contenere una storia da raccontare. Fa parte della redazione vino di Identità Golose
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