«A me l’Ansonica non piace. Ma poi quando sono arrivato sull’Isola del Giglio e ho visto quella vigna mi sono innamorato. E non ho saputo dire di no».
Massimo Piccin, prima che ingegnere e successivamente produttore di vino, è una persona profondamente amante del bello. Ed è per questo motivo che si è innamorato di quel pezzetto di terreno, solo 3mila metri quadrati, che si inerpicava sul fianco dell’Isola del Giglio, sul versante Ovest, a breve distanza dal Faro di Punta Fenaio. Da qui nasce il vino Le Secche.

Il vigneto incastonato tra la macchia mediterranea
La storia di
Piccin è sicuramente molto particolare. Originario del Veneto, diventa ingegnere per proseguire nell’attività del padre. Ma capisce in breve tempo che quella non era la sua strada. «A quel punto decido di fare un investimento, e lo voglio fare nel vino. Siamo alla fine degli anni Novanta. Arrivo a Bolgheri e capisco che quello era il luogo ideale per avviare la mia attività. Avevo anche visitato altri territori vicini, mio padre mi diceva che con quei soldi avrei potuto comprare il triplo di terreni altrove. No. Io avevo deciso che Bolgheri era il mio luogo».
Qui nasce Podere Sapaio, nel 1999: «Gli anziani proprietari della tenuta mi hanno venduto 8 ettari, dove c’era una piccola parte di vigneto a Trebbiano e a Sangiovese, seminativi e poi terra nuda. In pratica dovevo iniziare da zero». Ma Piccin è un ingegnere, non un enologo o un agronomo. «Fu Luigi Veronelli che mi mise in contatto con l’enologo Carlo Ferrini. Da lì iniziò la nostra collaborazione».
Così parte l’avventura di
Podere Sapaio, che ora può contare di 26 ettari, 17 a Bolgheri e 9 a Bibbona, con la realizzazione di due vini,
Sapaio e
Volpolo, utilizzando vitigni internazionali.
Massimo Piccin non è un produttore per passione, ma lo fa perché fare vino lo rende felice. E questa felicità cerca di trasmetterla non solo nelle bottiglie, ma anche in tutto quello che realizza.
Così, nel 2015, arriva sul Giglio e gli propongono una vigna di Ansonica. «A me, però, l’Ansonica non piace. Non è il mio vitigno, non sono i miei vini. Però poi mi portano a vedere la vigna, solo tremila metri di terreno. Quando arrivo non posso fare altro che stupirmi della bellezza di quel luogo».

Massimo Piccin mostra la sua vigna
Si tratta di un anfiteatro naturale, su terrazzamenti con muretti a secco, con viti centenarie praticamente a picco sul mare, sul versante Ovest dell’Isola: da lì, tutti i giorni, si può ammirare un tramonto meraviglioso. La bellezza, quindi, incanta ancora
Massimo Piccin. «Non potevo dire di no. E sono partito. Mi sono detto che avrei dovuto fare un vino diverso dagli altri. Così dal 2015 al 2018 l’ho realizzato con una macerazione di tre mesi in anfore
Tava, per poi passarlo in barrique usata. Ma non mi convinceva. Così dall’idea ossidativa, siamo passati a una soluzione di riduzione. Perciò abbiamo effettuato una fermentazione con bucce e un po’ di raspi, per poi portarlo in ceramica della
Clayver e lasciarlo per dieci mesi sulle sue fecce fini, per poi completarlo con un riposo in bottiglia di un altro anno circa».
Anche il vigneto ha avuto una sua evoluzione. «C’erano molte fallanze, che abbiamo dovuto colmare. Poi mi proposero un altro pezzo di terreno di quattromila metri appena sotto al vigneto originale. Lì abbiamo dovuto fare un nuovo impianto, ora le vigne giovani stanno iniziando a dare i loro frutti».

Il momento della vendemmia: quante difficoltà per portare l'uva in cantina
«Devo dire, da imprenditore, che in un primo momento avevo fatto anche un piano economico, per questo vino. Dopo tre anni ho preso quei fogli e li ho buttati…».
D’altronde, a quel vigneto si accede solo attraverso uno stretto sentiero, con una mezz’ora di cammino. La lavorazione è esclusivamente a mano e anche la vendemmia diventa una impresa, per portare le cassette di uva fino a un luogo dove si può utilizzare un mezzo per trasportarle. Poi vengono portate a Bolgheri, per la vinificazione e l’affinamento.

La serata con gli chef: al centro Massimo Piccin
Ma conta più la felicità. Quando parla di
Le Secche,
Massimo Piccin si emoziona. «L’annata 2022 è quella che preferisco, perché finalmente ho un risultato che inizia a convincermi, soprattutto al naso». Per presentarlo, ha scelto proprio il
Faro del Fenaio, chiamando tre chef per l’abbinamento al suo vino. Nello specifico
Ariel Hagen del
Saporium Firenze ha presentato il suo
Orzotto, Fungo², Mirtillo latto fermentato; mentre
Matteo Panfilio di
Arva Restaurant ha proposto
Anguilla cotta sulla brace babaganoush di melanzana e olio alla menta, mentre
Rocco De Santis del
Santa Elisabetta dell’Hotel Brunelleschi di Firenze ha voluto portare la
Triglia in crosta di pane allo zafferano 2015, uno dei piatti storici del locale.
Con tutti i tre piatti dai sapori ben decisi, Le Secche ha dimostrato di essere un bianco “anomalo”, per certi versi più vicino a un vino rosso, dove la parte aromatica fruttata, ma anche di erbe officinali e di macchia mediterranea, era supportata da una struttura notevole, con una leggera parte tannica conferita dai raspi, e una grande profondità. Quindi il vino ha saputo perfettamente reggere il confronto con le ottime preparazioni dei tre bravi chef.
E il sorriso di Massimo Piccin, alla fine, arriva come giusto coronamento di una serata speciale. «Questo è il nostro non-regno, dove il mare cerca di somigliare alla terra».