La serenità in cucina ha il volto sorridente di Stefano Cerveni mentre racconta: «Io qui mi trovo proprio bene», e con un gesto mostra la sala rettangolare dove siamo accomodati, ariosa, accogliente, su tre lati racchiusa da antichi muri in pietra mentre l’ultimo, presidiato solo da ampie vetrate, invita a tuffarsi con la sguardo nella campagna della Franciacorta circostante. L’insieme promana una sorta di magnetismo che non eccita, ma appunto tranquillizza, invita a gustare con calma i piaceri della tavola e della (bella) cantina.
La maturità ai fornelli porta la firma di questo chef 45enne che, già illustre quando la sua insegna si trovava nella vecchia casa della natia Rovato, sembra – e lo conferma lui medesimo – aver trovato la propria dimensione ottimale qui, a neanche 10 km di distanza, in quel medioevale Borgonato di Corte Franca, sede anche della Guido Berlucchi, dove Le Due Colombe sono volate da 4 anni. Non che la dimensione della serenità sia quella della flemma e men che meno dell’inoperosità, siam pur sempre dalle parti di Brescia e si lavora sodo: 5 in brigata per una cinquantina di coperti che triplicano quando vengono ospitate le cerimonie. Ma questa è la pace che può godersi chi pensa di aver trovato la propria strada: ed è quasi un paradosso, o forse al contrario ne è la controprova, quel piatto di cavolfiore caramellato che omaggia la figura di Bernard Loiseau, il cuoco che invece non trovò quiete e si diede la morte.

Ariosa, luminosa, rasserenante: la sala da pranzo delle Due Colombe
Vive, invece, la cucina di
Cerveni. Che non è più quella in
technicolor di un piatto celebre e prelibato come
Patata viola, gambero rosso e Franciacorta, ormai circonfuso quasi d’aurea classicheggiante (è del 2007). Mantiene la complessità che là veniva dispiegata nei vari contrasti morbido-croccante, acido-dolce, freddo caldo, ma sembra ormai aliena dal voler scavalcare il territorio, così come non accenna a restarne imprigionato, per quanto il
Manzo all’olio delle Due Colombe con polenta rimanga fedele alla ricetta di nonna
Elvira, anno 1955: ma è più vezzo, gioco di rimandi, doveroso inchino al passato. Dispiega invece energia nuova però soffusa, nessun effetto speciale ma prodotti delle cascine attorno, niente show cooking poiché «il piatto ve lo voglio spiegare».
Ecco dunque l’
Insalata di pollo bio (della fattoria
Paradello di Rodengo Saiano)
con sarde essiccate di Monte Isola, gelatina di salsa verde e popcorn di pollo, inno terracqueo ai dintorni: l’aia e il lago insieme, connubio contemporaneo che ci ha convinto più della coeva
Tinca al forno 2014, versione 2.0 dell’antica (e pesantissima) ricetta della tinca di Clusane riempita dello stesso ripieno della gallina e poi cotta immersa nel burro: qui invece la farcitura diventa wafer che racchiude il pesce, insomma tre strati di delicatezza poggiati sopra una salsina alle erbe aromatiche.

La Zuppa di Babette: semplicità e opulenza insieme, che gioica col rimando cinematografico riprendendone due preparazioni, in un piatto del 2013 di enorme piacere gustativo
I piatti che descrivono più compiutamente il
Cerveni odierno sono però altri e strappano olé di gaudio. Il
Risotto mantecato al Grana Padano, limone candito e polvere di caviale Calvisius, estremamente moderno nei suoi contrappunti aromatici sulla nota di fondo dell’agrume gardesano; è invenzione di quest’anno, mentre solo qualche mese in più ha la
Zuppa di Babette, che traduce in parlata franciacortina due preparazioni dal famoso
film premio Oscar, il danese
Pane cotto nella birra e le mitiche, parigine
Cailles en sarcophage. Qui la zuppa è una
panada bresciana, dunque in brodo di pollo, cui l’arricchimento di tartufo nero, foie gras e bocconcini di quaglia spadellati al momento conferiscono una eccezionale opulenza gustativa che pur veste i panni del piatto povero. Come nel pranzo di
Babette, anche in quello di
Cerveni «rettitudine e felicità si sono baciate».