«Tutto parte da dove sono nato, da dove provengo», dice Nicola Fanetti, e qui si torna a un concetto che abbiamo già incontrato più volte in passato, ad esempio da Alessandro Gilmozzi o da Alessandro Dal Degan, tanto per fare due nomi. Ossia: la specificità territoriale delle varie tradizioni gastronomiche europee fa sì, da sempre, che espressioni culinarie simili – e che non si sono influenzate affatto, ma si sono sviluppate e radicate del tutto parallelamente e autonomamente, per secoli - si trovino magari a grandissima distanza tra di loro, in luoghi un tempo sconosciuti l’uno all’altro. Però accomunati da analoghe caratteristiche climatiche o morfologiche. Così, per dire, Gilmozzi anni fa sorrideva quando qualcuno avvicinava il suo stile alla Nuova Cucina Nordica, quasi che quest’ultimo scimmiottasse quella, e non fosse invece figlio del “semplice” recupero della cultura alimentare dei boschi trentini.
In modo ribaltato ma analogo, Fanetti non ha solo trovato a Copenhagen - dove è chef-patron del Brace di gran successo - un luogo ideale per far impresa ristorativa, come molti altri italiani; ha anche scelto la capitale danese perché vi ha scorto quegli elementi che gli ricordavano il suo imprinting gustativo profondo, lui è nato e cresciuto a Breno, ossia provincia di Brescia ma soprattutto Val Camonica, «montagna-montagna» dice, vicino alla Svizzera, «là i miei nonni avevano le loro coltivazioni e allevavano animali», Fanetti indugia col ricordo. E vi dimostra un attaccamento particolare quasi da Paradiso Perduto, viene in mente Michele Lazzarini che pure è di quelle parti: «Crescendo lì, ho introiettato l’idea di cucinare in casa con prodotti veri. Così è nata la mia passione».
Che poi si è sostanziata con gli apprendimenti acquisiti all’
Alma e al
Miramonti l’Altro prima di finire proprio a Copenhagen, era il 2011 e la città della Sirenetta esercitava sulle nuove leve internazionali del fine dining lo stesso fascino e attrattiva della Spagna di qualche anno prima, «sapevamo che in quella città si stava diffondendo una nuova cultura gastronomica. E la trovavo incredibilmente vicino al mio pensiero, alla mia formazione di montagna: semplicità, prodotti di stagione, vicinanza con la natura, valore dell’ingrediente che non va troppo “contaminato”».
Dunque: 2011. Dopo una parentesi all’italiano Era Ora, arriva il Noma, «sono rimasto solo otto mesi ma mi si è aperto un mondo: ho capito che per fare una tavola di qualità non era strettamente necessario lavorare con caviale, tartufo, aragoste e foie gras… E poi ho imparato un modo diverso di trattare i rapporti coi fornitori, con le farms. Ho conosciuto i foragers». Una svolta.
Sei anni più tardi, ormai deciso a mettere radici in Danimarca, Fanetti ha aperto appunto il suo Brace. L’idea: «Tenere quanto appreso ma riscoprendo le mie radici italiane, coi sapori più decisi del mio Nord rispetto a quelli di questo Nord, che vanno più sull’acidità e la freschezza. Non parlo tanto di km zero, ma di materia prima di stagione. Instauro rapporti forti coi vari fornitori e con loro sviluppo nuovi ingredienti». Esempio: «A 50 chilometri da qua abbiamo trovato una farm che produce pomodori da panico (acidi? «No, dolci». E come fanno? Serre? «No, iniziano la coltivazione in serra e poi vanno a catturare il sole dell’estate, all’aria aperta. Per noi un pomodoro è banale, per loro è una ricerca. Questo mi affascina»).
Non è solo storytelling. Nel nostro menu, di qualche mese fa (vedi le foto sotto), il primo assaggio è una
Sfera di stracciatella con capperi di sambuco. «La stracciatella è prodotta qui da
La Treccia, un’azienda di due ragazzi calabresi che lavorano il latte da mucche Jersey, più grasso e si sente. Perdi in acidità e freschezza ma in bocca va il velluto, una sinfonia». È un piatto esemplificativo del
Brace: «Ci basiamo su grandi prodotti semplici, artigianali, dove conta la manualità. Non sono gli stessi ingredienti che useremmo in Italia, l’importante è che possano regalarmi sensazioni simili. Per dire: non importo i capperi dalla Sicilia, regalo sapidità con quelli di sambuco». Concettualmente simile, gustativamente diverso però con un rimando a un “originale” che cambia quindi veste per l'occasione. Differenza e somiglianza, molto intrigante «anche se i danesi non possono avere una memoria gustativa di riferimento». Noi sì. Così, al di là dei singoli piatti, rimane l'idea di una cucina evoluta, fertile, con ottime prospettive. E di una fusion gastroculturale che esalta.

Stracciatella, capperi di sambuco. La stracciatella è prodotta a Ishøj, 20 km a Ovest di Copenhagen, da due ragazzi calabresi, azienda agricola La Treccia

Bun fritto, creme fraiche, aneto, uova di trota. Buonissimo

Waffle ripieno di finferli e ricoperto di koji d'orzo

Tartelletta ai chiodi di garofano, rafano, cervo e ponzu

Carpaccio di hamachi danese, sesamo, granita di gazpacho di peperoni, camemoro. Molto fine

Cannelloni di patate, scampi, maggiorana, formaggio di capra, beurre blanc allo zafferano

Spaghetti al riccio di mare islandese, cinorrodo, sommacco

Tortelli, topinambur, salsa di funghi, noce moscata, mora

Crespella al dragoncello, fungo testa di scimmia, tartufo nero, spuma di noci. Il fungo testa di scimmia è l'Hericium erinaceus

Anatra grigia selvatica alle erbe, germoglio di verza, gemma di abete rosso

Anatra secondo servizio: le interiora diventa un ripieno

Pistacchio, uva spina, caviale di storione bianco

Polline d'api, gelso, olivello spinoso

Cannolo al malto e zucca Hokkaido