A tre ore dall'inaugurazione del proprio primo locale da chef-patron, a 37 anni, Alberto Gipponi era finito in ospedale, a Brescia: «Una ventata d'aria aveva fatto sì che l'olio s'incendiasse». Ustioni di terzo grado a entrambe le mani, da operare, prognosi di trenta giorni in riposo assoluto, ma poco dopo era già a cucinare, per non dover disdire l'unico tavolo prenotato, da una sola persona: sua moglie Angela. Determinatissimo o folle, fate voi. Un po', peraltro, se l'era cercata: aveva deciso di aprire il suo ristorante Dina, a Gussago, in un giorno particolare, quel giorno: venerdì 17 novembre 2017.
Poco più di quattro mesi dopo, i segni dell'episodio sono le stimmate professionali di un bel talento, seppur sbocciato tardivamente, che pulsa nel cuore di un uomo che come minimo va definito originale. «Chi non mi conosce dice che sono spocchioso. Massimo (Bottura, ndr) ribatte che invece sono umile. Io credo semplicemente di essere consapevole, soprattutto dei miei limiti, e di avere imparato ad imparare dai miei errori», che non è cosa da poco.

«Ne ho fatti tanti», confessa. Di certo, il suo percorso si discosta dal solito, riflettendo appieno la sua personalità. È un bresciano classe 1980, laureato in Sociologia, diventato musicista («Molto scarso. Il mio problema alla chitarra era, appunto, che non riuscivo ad apprendere dagli errori, li ripetevo sempre»), poi assistente all'Università, quindi ancora impegnato nel sociale come coordinatore di un grosso ente locale di beneficienza, «ma sempre con un'ossessione: la cucina. Non ho mai fatto passare un mese senza concedermi un'esperienza di
fine dining, fin da quando ero ragazzo. Però dovevo riuscire ad allineare le mani (ossia la tecnica) a quello che avevo in testa, nell'animo e nel palato».
A un certo punto - ormai 35enne - decide di provare a farne il proprio lavoro: che stia lì la vera vocazione? Trova posto in Friuli, a Cividale, stage all'
Orsone di
Joe Bastianich, chef
Edoardo Valle Lobo; quindi, più vicino a casa,
Da Nadia, quando ancora era a Castrezzato. «Il 9 aprile 2016 vado a mangiare per la prima volta all'
Osteria Francescana. Io scrivo molto, forse troppo, e scrivo molto delle idee che albergano nei miei piatti. Così lascio in via Stella a Modena il racconto della mia
Crema di buccia di zucca», ricetta no-spreco che evidentemente colpisce
Massimo Bottura.
Driiiiin! Il giorno dopo suona il cellulare (che in effetti non fa driiiin, ma è per rendere l'idea). «Non sento gli squilli, scopro più tardi che ci sono due chiamate perse, da un numero sconosciuto. Richiamo io: "Sono Gipponi, chi è? Desidera?". Dall'altra parte una voce: "Non so chi sei tu". Mi spazientisco un poco: "Mi ha chiamato lei!". L'altro risponde, sento che ha un accento emiliano, capisco e trasecolo: "Ma lei è Bottura. Mi scusi, mi devo sedere, mi tremano le gambe". E lui: "Ah ma sei Alberto! Ciao!". Mi chiamava già Alberto, il Massimo».

Lo staff dell'Osteria Francescana a Identità Milano 2017. Gipponi è il secondo alla destra di Massimo Bottura
Il dialogo, in puro stile botturiano, è così riassumibile: «Segui il tuo sogno» (lui definisce
Bottura, appunto, "filantropo dei miei sogni",
ndr).
Gipponi prende il modenese di parola: «Voglio tornare alla
Francescana. Trovo miracolosamente un tavolo libero il 3 maggio a pranzo, poi anche il 9 giugno».
Bottura è braccato: «Mi sono attaccato alle sue gambe, finché mi ha preso», circa otto mesi dopo il primo stage davanti a fuochi che non fossero quelli di casa propria! «Nei primi tre giorni mi guardava come se fosse sul punto di farmi tornare a Brescia a calci», poi poco a poco è nata un'intesa, «la svolta quando mi ha sorpreso a raccogliere le cicche di sigaretta sparse in via delle Rose, dirimpetto all'
Osteria. E ottimo feeling si è creato anche con
Davide Di Fabio, con
Pippo Feroci, uno dei tre botturiani storici...».
Gipponi entra a far parte del gruppo: «Dicevano:
per prediche e confessioni rivolgersi a don Gipponi», che è quasi uno slogan. Perché lui è un introverso-riflessivo che all'occasione si trasforma in loquace al limite della logorrea: «Fammi un cenno, quando sei stufo di sentirmi parlare» ci butta lì, e intanto chiacchiera di «ottica relazionale e umana».
Che a parlare, in effetti, parla parecchio. Ma dice (e scrive, come sottolineato sopra) cose belle, pensate, stimolanti. Ti porta il librone degli ospiti del
Dina ed esclama solenne: «Da questo momento le nostre storie sono intrecciate». La sua espressione preferita è «liberi e leggeri», per dire che uno deve mettersi a proprio agio. Nel descrivere un proprio piatto,
Agnello nella bocca del lupo, lo presenta così: «Rappresenta le attrazioni che sarebbe meglio lasciar perdere». E subito dopo, alla portata successiva: «Ora ti presento un fegato spappolato nel piatto» (ed era anche buonissimo, peraltro). Di certo, da
Bottura ha affinato anche un'arte dello
storytelling che però gli è del tutto spontanea.
Ci siamo dilungati nella descrizione del personaggio, perché Gipponi è un tipo davvero interessante e poliedrico, e poi riempie di sé il Dina. Che a pochi mesi dall'apertura («Non esiste il momento giusto per fare una cosa, lo sai solo tu, nel tuo cuore, quando è arrivato il momento di farla. E se sbagli non c'è problema perché hai ascoltato te stesso, altrimenti avrai sempre il rimpianto e il dubbio di non averlo fatto») lo rappresenta assai. Ed è ricchissimo di stimoli gastronomici. Banalizzando: si mangia proprio bene, senza scadere mai nell'ovvietà.
Il locale deve il proprio nome alla nonna dello chef, ed è stupendo. Oddio, da fuori niente di che: un palazzetto di provincia a Gussago, porte di Brescia, color casa cantoniera, con una semplice scritta nera dipinta sopra la porta, in corsivo, "
Dina" («Abbiamo voluto rispettare il ritmo di questa strada», anonima), e un campanello che pare quello di casa, nient'altro, questa era in effetti una casa abitata, «e così desideriamo che appaia», prima di divenire bar, quindi osteria e ora, con
Gipponi, ristorante.
Suoni, e vengono ad aprire la porta di legno, con gran rumor di chiavistelli: si è accolti in una stanza tutta buia, sul fondo una scritta al neon bianca, opera d'arte di
Jonathan Monk: "
Until then if not before", ossia
fino ad allora se non prima. È una "camera di decompressione», come la chiama lo chef, tra l'esterno e le sale interne; queste sono cornucopia di opere d'arte e di design suddivise in quattro ambienti, la
Cantina, la
Veranda, il
Laboratorio e la
Sala della noia e dell'attesa, che è poi quella per entrare nel bagno adiacente. Tante lampade di
Flos, il cui quartier generale si trova a Bovezzo, una decina di km, e alle pareti opere della bresciana
Galleria Massimo Minini d'arte contemporanea.
Il caso vuole che
Massimo Minini, uno dei più influenti mercanti d'arte al mondo, sieda al tavolo accanto al nostro: «Pochi mesi e questo è già il miglior ristorante della città», ci spiega. Ha ragione. I piatti hanno nomi come
Tutto ci passa attraverso e ci cambia o
No, secondo no! o
Non mi era proprio mai piaciuta o
Ma quante ne sanno! e così via. Li descriviamo nella nostra fotogallery, firmata
Tanio Liotta. Bastino qui alcune osservazioni.
1) La cucina è interessantissima. Gipponi da gennaio ha trovato un suo alter ego nel sous chef Gian Nicola Mula, classe 1989 da Dorgali (Nuoro), figlio d'arte, già a sua volta all'Osteria Francescana e poi da Roberto Petza. Con lui e Gipponi, altri 3 in brigata, per una trentina di coperti sempre più prenotati.

Gipponi e il suo sous chef Gian Nicola Mula
2) Il rapporto qualità/prezzo è eccellente, percorsi degustazione a 55 e 63 euro.
3) Anche il servizio e la cantina funzionano bene e con un sorriso, quello del giovanissimo Marco Abeni, classe 1996 da Iseo, già al Volto che fu di Vittorio Fusari. Propone una carte dei vini snella ma raffinata, piccoli e piccolissimi produttori «selezionati secondo un assaggio alla cieca, in base a quello che mi piace», racconta Gipponi. Il VSQ Brut Rosé Pas Operé di Cà del Vent di Cellatica (64% Cabernet Sauvignon, 36% Merlot) si candida a essere la bollicina ufficiale del Dina.

Marco Abeni sotto gli occhi di Gipponi prepara un cocktail Lussuria: mela, limone, estratto di barbabietola rossa, gin, menta e zucchero di canna
4) A livello stilistico, lo chef differenzia tra piatti più semplici e inclusivi, per tutti, e altri più pensati ed estremi, «che sento maggiormente miei». Nei due casi cambia la posateria: per i primi posate di metallo battuto, per i secondi ergonomiche. Vi è, soprattutto, un ribaltamento gustativo rispetto alla norma: è proprio la proposta più
easy a risultare maggiormente delicata, mentre quella di alta cucina
border line raggiunge mirabile complessità con una muscolatura gustativa notevolissima, in una lotta tra sapori che risulta sorprendente perché sfiora l'eccesso senza mai toccarlo e sfocia in una bella alternanza di aromi intensi quanto persistenti. Consiglieremmo qua e là un po' di lavoro di lima: in un caso e nell'altro, l'esito è comunque del tutto armonico. La musica è alta, ma non c'è mica frastuono.