Tornare all’Albereta, ora che Gualtiero Marchesi non c’è più, significa anche scavare nei ricordi: cercare quella sala in cui chi scrive si accomodò per assaggiare il proprio primo Riso oro e zafferano, o quel salottino dove il Maestro della cucina italiana si fece trovare pronto, per due chiacchiere. Difficile però raccapezzarsi, tutto è cambiato da quel 31 dicembre 2013, quando per l’ultima volta Marchesi firmò il menu del relais franciacortino che decise all’epoca di voltare pagina, dopo più di vent’anni trascorsi ininterrottamente a braccetto con Gualtiero, un sodalizio che era sorto fin dall’apertura della struttura, il 23 settembre 1993. Marchesi aveva deciso di lasciare Milano e di sposare il nuovo progetto di Vittorio Moretti; qui confermò ancora a lungo la propria straordinaria maestria, così che se due indirizzi possono essere associati alla sua figura, uno è certo quello meneghino in via Bonvesin della Riva 9, l’altro è questo di Erbusco, via Vittorio Emanuele 23.

Abbattista posa con aperte le pagine a lui dedicate, in 100 chef x 10 anni (Mondadori)
Tutto è cambiato, si diceva. Scelta strategica: quando
Marchesi se ne andò e la cucina venne affidata al giovane
Fabio Abbattista, c’era necessità di segnare la discontinuità, di marcare a chiare lettere un prima e un dopo. «Il problema era capire che impatto ci sarebbe stato sulla clientela. Così tenemmo chiuso il ristorante per sei mesi, per avere il tempo di cambiarne la fisionomia. Quando riaprimmo, era un’altra cosa». Ed era differente anche la proposta gastronomica, «non avrebbe avuto senso scimmiottare quanto c’era stato nel passato. Io sono io e mi misi subito in gioco». Partita dura, l’ombra di
Marchesi ha accompagnato
Abbattista a lungo – ormai sono cinque anni giusti giusti, iniziò a lavorare qui nel gennaio 2014 – anche se questo molfettese garbato, classe 1977, s’accorse già durante la seconda stagione di essere riuscito a scrollarsi di dosso la pesante eredità: «Lo percepii chiaramente, eravamo riusciti a imporre una nuova identità».
Tornare all’
Albereta, ora che
Gualtiero Marchesi non c’è più, significa però anche accorgersi non solo di ciò che è mutato, ma anche di ciò che rimane. Il ricordo, intanto, «era l’aprile del 2011, una domenica – rievoca
Abbattista - Volevo mangiare da
Marchesi, venni qui a Erbusco, mi accomodai a quel tavolo. Che magnifica esperienza!». Non era la prima volta che la grandezza del Maestro faceva capolino nella vita del giovane cuoco pugliese: «Nel 1998 lavorai come commis al ristorante del
The Halkin londinese (leggi anche:
Cena a Londra, ma da Elena Arzak)», era l’insegna cui
Marchesi aveva prestato la propria consulenza fino a poco prima, dal 1991, ottenendo nel 1995 la stella Michelin. A guidare la cucina era rimasto un suo allievo,
Stefano Cavallini (avrebbe lasciato nel 2011), «ricordo l’orgoglio di far parte di quella squadra, era il primo grande ristorante italiano all’estero, e dovevamo dire grazie alla genialità del Maestro, per quello che aveva saputo costruire; c’erano
Cavallini, ma anche
Mauro Governato come maître (ora è executive manager del
Four Seasons a Milano,
ndr) e
Federico Graziani come sommelier (leggi anche:
Un sommelier sull'Etna). Che bel team!».

Lo staff del Leone Felice
E’ come se il destino abbia voluto che le vite di
Abbattista e
Marchesi s’incrociassero in più occasioni, senza però che mai vi fosse un incontro, professionalmente parlando: non a Londra, non certo all’
Albereta, «e pensare che proprio agli inizi della mia carriera, mandai un curriculum a Erbusco, mi candidai a far parte della brigata di
Gualtiero. Mi risposero però che non avevano posizioni scoperte in quel momento, e così la mia carriera prese altre strade», prima di portarlo davvero nel relais franciacortino, ma da chef e poco meno di un decennio più tardi.
Eppure, anche chi come Abbattista non ha mai lavorato con Marchesi – anzi, lui ha dovuto in qualche modo esorcizzarne la figura, quando gli è subentrato – non può che riconoscerne gli insegnamenti, non può che continuarne la lezione. Spiega lo chef: «Il mio stile di cucina, ma direi lo stile di cucina di tutti i maggiori cuochi italiani, gli devono molto». Marchesi vive ancora, per così dire, all’Albereta, «e in modo lampante, nella sua idea di fondo, che è stata quella di nobilitare la cucina italiana, renderla elegante, semplice, pulita nel piatto. Questo rimane: la semplice genialità nell’aver intuito quanto fosse necessario prendere il nostro immenso patrimonio gastronomico, partire da lì’, magari anche contaminarlo con prodotti nuovi, ma mai dimenticandone l’italianità. Nella materia prima, nella tecnica, nel gusto».

Fabio Abbattista, lezione "Un sano piacere italiano" a Identità Milano 2015
Questo, in fondo, fa
Abbattista anche oggi. Al
Leone Felice, il ristorante gourmet dell’
Albereta («Il nome? Qui c’era un custode che si chiamava
Leone, cui è stata dedicata inizialmente una vigna, oggi vi si ricava uno Chardonnay, il
Vigna Leone appunto. Abbiamo ripreso quell’omaggio»), lo chef racconta l’Italia, nei suoi vari aspetti che ha conosciuto negli anni: «Sono pugliese, ho a lungo lavorato a Roma, all’
Hilton quando
Beck era appena arrivato e poi all’
Altro Mastai con
Fabio Baldassarre, quindi a Milano sempre con
Baldassarre all’apertura di
Unico. Insomma, il “viaggio nella Penisola” fa parte della mia storia» e di una sensibilità personale che lo porta a strutturare un menu davvero intelligente.

Ancora da Identità Expo, foto con Gualtiero Marchesi, Fabio Abbattista, Francesco Apreda ed Ezio Santin
I piatti di
Abbattista sono pieni, dritti sul gusto ma anche eleganti; c’è il sapore, come detto, avvolgente, ma sempre ben bilanciato, armonico, mai fine a sé stesso. Di volta in volta può raccontare il Mare Nostrum (
Morbido di seppia e intingolo mediterraneo), il territorio (
Anguilla dell’Iseo ai carboni, cetriolo, mela verde e cerfoglio) oppure azzardare crossover perfetti al palato, deliziosi, come nelle
Lumache, royale di carciofi e teriyaki. Lo chef sa anche recuperare intelligentemente una certa classicità:
Soufflé alla nocciola, gelato variegato al pralinato, gran dessert. Che poi, al termine di una cena di alto livello (la raccontiamo per testi e immagini nella fotogallery, gli scatti sono di
Tanio Liotta), un assaggio però spicca su tutti:
Piccione alla cenere, rabarbaro e pepe timut. Un petto così buono forse non l’abbiamo mai mangiato.