«Ogni giorno ci domandiamo: perché devono venire qui da noi?». Due risposte alla domanda di Floriano Pellegrino, classe 1990, rimasto solo con Isabella Potì sulla plancia di comando del Bros di Lecce, il fratello Giovanni ha infatti deciso nei giorni scorsi di abbracciare un altro progetto, dopo che anche Francesco aveva abbandonato, all’inizio dell’avventura. Due risposte, dicevamo. La prima la forniamo noi, la seconda viene dalle parole dello stesso Floriano.
LA NOSTRA RISPOSTA – Bros è per chi scrive una delle migliori interpretazioni di cucina italiana contemporanea, in assoluto. Al termine di un pranzo letteralmente elettrizzante, siamo giunti a questa conclusione: il futuro non può che essere qui. Nello sguardo carismatico di Floriano Pellegrino, nella sua energia trascinante che non è quella futile dell’entusiasta superficiale, ma la strutturata di chi, nonostante la giovane età, ha tanta esperienza alle spalle e le idee chiare sul futuro. C’è chi lo rimprovera di non essere “legato al territorio”: troverà risposta nelle sue parole qua sotto. Ma poi: quale maggior legame col territorio può esserci in chi, dopo le esperienze da Eneko Axta, Claude Bosi e soprattutto Martìn Berasategui, che voleva rimanesse, sceglie di tornare a casa, a Lecce (senza rinunciare al proprio stile, eh…), lui che è nato nel borgo salentino di Scorrano? Quale prova migliore?

Notiamo negli ultimi tempi una qualche inquietudine, una sorta di ansia di novità, nelle giovani generazioni di cuochi italiani. Quasi che – e noi ce l’auguriamo – stessero scandagliando il terreno alla ricerca di qualcosa di nuovo, di un modello originale, italiano, che vada oltre la semplice riproposizione del territorio in chiave 2.0, ma offra una prospettiva più autenticamente originale e innovativa, una sintesi complessiva, forte della lezione della generazione precedente, che già ha portato l’Italia dell’alta cucina alla ribalta.
Andare oltre. Alla ricerca di cosa? Presto per dirlo. Ma Bros ci sembra oggi la punta più avanzata, completa, stimolante, solida di un movimento in fieri, consapevole, formato da giovani che hanno studiato, han fatto esperienza nel mondo, ma tornano a casa per innervarla di nuova energia. Perché sanno che proprio lì l’agricoltore, l’allevatore, il pescatore, ma soprattutto la nonna custodiscono una sapienza antica, un terroir unico, un know how applicato al prodotto e a tecniche ancestrali che, mentre l’avanguardia spagnola ha terminato il proprio fertile balzo in avanti, sono quanto di più autenticamente innovativo ci sia da offrire.

Isabella Potì, compagna di Floriano e colonna del Bros
Dice
Floriano: «La mia generazione può fare grandi cose. Sono felice quando vedo che buona parte della mia clientela è formata da under 40» (la cosa ha messo in imbarazzo lo scrivente, felice al tavolo ma privo dei requisiti,
ndr). Perché hanno un idem sentire, hanno vissuto e vivono la stessa realtà, hanno preso coscienza di com’è cambiato il mondo ma non vivono la cosa con la nostalgia dei bei tempi andati che caratterizza chi è più grande di loro e ha vissuto il
prima, ma accettano la sfida con il coraggio che impone l’
adesso, per costruire il
dopo.
Floriano Pellegrino fa qualche nome, di chi sente sulla sua stessa lunghezza d’onda: Gabriele Boffa, da marzo al timone dei fornelli al Castello di Guarene (Cn), e Marco Miglioli, sous di Fabrizio Tesse al Carignano di Torino. Ma si potrebbero aggiungere – diciamo noi - Lorenzo Cogo, Oliver Piras, Gianluca Gorini, tutti premiati da Identità Golose. O Davide Guidara, chef 22enne del ristorante di Milazzo eletto da Cronache di Gusto come migliore di Sicilia 2017. E Davide Caranchini, Francesco Brutto, Luca Abbruzzino, Marco Ambrosino…
LE PAROLE DI FLORIANO - «Perché devono venire qui da noi, dunque? Non per gli astici, per la grandeur della cucina francese, né per le tecniche spagnole, né per il semplice territorio, che viene raccontato da tutti o quasi, in Italia. Ma per un concetto nuovo, che vogliamo portare avanti, sul quale vogliamo lavorare: una sorta di
koiné mediterranea, che è la memoria dei sapori comune non solo della Puglia, ma di tutto il Mare Nostrum. Io parlo di
background gustativo».
«Prendiamo le acidità: tutti a pensare alla cucina nordica, ma l’uso dell’aceto è nostro, penso a quello in anfora, mia nonna lo preparava sempre. Cozze e limone non significa imitare Troisgros o il Giappone o il Nord, ma rimanere nel solco della nostra storia. O l’uso della calce in cucina: vi ho ritrovato Mugaritz, era una tecnica degli Aztechi, però qui intorno era patrimonio gastronomico condiviso. Appunto per questo, noi vogliamo allargare lo sguardo, e siamo determinati a seguire un percorso tutto nostro».
«Io dico sempre ai miei ragazzi: girate il meno possibile, perché già l’abbiamo fatto in questi anni, ora è il tempo di proseguire su una strada che escluda quello che già fanno gli altri e includa invece i gusti che sono propri del nostro palato: acido, salmastro, amaro. Aromi decisi, concentrati, grappe barricate, caffè troppo tostati... L’altro giorno avevamo qui un rappresentante del rum Zacapa, mi diceva che hanno dovuto creare un rum negro, ambrato, specificatemente per quest’area, perché a noi italiani piace così».
«Noi lavoriamo col territorio, ma scegliamo il top, e allora ben vengano le nocciole piemontesi o le quaglie francesi. Qui attorno abbiamo selezionato tanti produttori che ci piacciono e rispettano il nostro concetto di eticità: prendiamo lenticchie, olio, formaggio... Ma non il gambero viola, che ormai si mangia ovunque, anche a Milano».
«Io credo che il futuro della cucina sia nel bacino del Mediterraneo. Su questo lavoriamo, su questo stanno lavorando anche altri, c’è un’opera immensa da portare avanti, ce n’è per i prossimi 30 anni, per fortuna ho l’età della mia parte. Voglio guardare al Nord Africa, penso alla grande cucina del Marocco, al salmastro di una tajine di pollo con limone in salamoia; non voglio finire nell’imbuto senza uscita che prevede solo cicoria, pomodori e fonduta di caciocavallo podolico».
«Cosa ho imparato in questo anno e mezzo? Tre cose soprattutto. 1) Credere in me stesso e nei ragazzi col quale lavoro, a iniziare da Isabella, che è di straordinaria bravura. Ho “perso per strada” due fratelli, perché l’impegno è enorme e capisco che possa apparire improbo. Sono il maggiore dei tre, auguro loro di avere successo coi loro progetti, in attesa di ritrovarci. Io vado avanti. 2) Come rapportarmi con il territorio. 3) Ha capito quanto lavoro c’è da fare!».

Isabella Potì e la quaglie
«Il mio rapporto con la città, con Lecce? C’è chi dice che i leccesi non vengono da
Bros. Non è vero: certo, gran parte dei nostri clienti è composta da turisti, ma abbiamo uno zoccolo duro di under 40, giovani dinamici come siamo noi. Com’è
Isabella, che parla 5 lingue: vogliamo portare internazionalità, entusiasmo. Stiamo facendo sul
garum un lavoro straordinario. Ogni giorno scopro cose nuove. E c’è un tesoro intero da dissotterrare».
«Ho una sola grande paura: di non fare in tempo. Il segreto per preparare i piparussi alla conza, i peperoni sotto la pressa, lo custodiva mia nonna, che però è mancata. Per fortuna mia mamma si ricordava quale fosse la tecnica che lei usava... E chi mi avrebbe tramandato i segreti del sanguinaccio, se non me li avesse raccontati uno zingaro, che ancora lo produce contro ogni legge? E chi mi trasmetterà l’arte della giuncata messa a seccare sotto la fuliggine? Spesso sono addirittura le normative che ci impediscono di fare cultura, di preservare questo patrimonio gastronomico: non riesco a trovare la trippa sporca, che è unica con i suoi aromi. Ecco, noi qui da Bros non vogliamo solo cucinare: ci facciamo carico di un dovere etico, che è quello di illuminare quanto stiamo dimenticando. E’ un lavoro immane, ma tanto siamo la generazione che non avrà mai una pensione, e allora rimbocchiamoci le maniche, lavoriamo il doppio, studiamo, come ho fatto io quando ho iniziato a girare nei migliori ristoranti del mondo, uscivo dall’alberghiero di Lecce e ero anni luce indietro rispetto ai miei coetanei di altre nazioni».
«Un sogno? Arrivare all’autarchia. Aprire da queste parti una masseria, “Pellegrino” la vorrei chiamare, autoprodurre tutto. Raccontare la nostra storia, il nostro riscatto, la nostra ricchezza. Ma sempre guardando avanti». E’ una sorta di manifesto in nuce della Nuova Cucina Mediterranea.