Dice Vittorio Fusari che all’inizio è stata molto dura: «Di più: un incubo. Arrivai a Milano quando stava per partire Expo. Ero disorientato: dovevo reinventare la cucina de Al Pont de Ferr, passare dalla sferificazione al prodotto, per dirla con uno slogan. Brigata da costruire, i ragazzi più strutturati se n’erano andati con Perdomo». Expo fu una valanga: locale sempre pieno, aspettative alte nel momento più difficile, quello del cambio di squadra: «Dico la verità, per sei mesi ho sofferto parecchio». Patron Maida Mercuri annuisce al suo fianco: «Diciamo pure che qualche piatto proprio non funzionava (usa un’espressione più tranchant, “faceva pietà”, ndr)».
Lei aveva chiamato Fusari qualche mese prima, «era la fine del 2014, Matias se ne andava e pensavo di aver bisogno di qualcuno che garantisse una grande conoscenza della materia prima. Volevo interrompere un percorso per aprirne un altro». Lui: «Quando mi telefonò, credetti che fosse per avere un consiglio, perché le trovassi qualche giovane chef da valorizzare. Io ero e sono un uomo della Franciacorta, moglie e figli vivono là. Che c’azzeccavo con Milano?».

Un articolo del 1987 scritto da Gianni Mura per Repubblica racconta il neonato Pont de Ferr. Il locale ha festeggiato lo scorso anno le 30 candeline
Anche perché il feeling tra lo chef e la metropoli lombarda non era mai nato, «diciamo pure che la città non mi piaceva affatto: troppi compartimenti stagni». L’aveva frequentata negli anni Ottanta, lavorando prima in un caffè di piazza Mirabello, poi per tre mesi in via Bonvesin della Riva, da
Gualtiero Marchesi, «mi ricordo che c’erano
Davide Oldani e
Carlo Cracco, giovanissimi. Quando potevo, scappavo a mangiare dalla
Pina, della
Scaletta (
Pina Bellini, aprì la
Scaletta nel 1977,
ndr)» in porta Genova.
Il cuore di Fusari batteva allora e batte oggi per uno stile meno trendy di quello dello stesso Perdomo, «per me la ristorazione deve essere un’altra cosa». Mercuri: «Mi ricordavo del Fusari alle Maschere (il locale di Iseo dove prese la stella. Fu meta golosa dal 1987 al 1995, ndr), era andato contro gli schemi con la sua cucina di ricerca», ma legata al prodotto, al territorio. Poteva funzionare sui Navigli ambrosiani del nuovo millennio inoltrato, zeppi di turisti alcolici e penosi happy hour? Qualche mese dopo aver accettato di guidare le cucina del Pont de Ferr, Fusari si domandava, in mezzo a mille problemi: «Chi me l’ha fatto fare?».
Cambio di scena. Una sera di qualche giorno fa, metà settimana: locale strapieno, «per fortuna è sempre così». I piatti arrivano puntuali, sono bellissimi e buonissimi, li raccontiamo in una golosa fotogallery, gli scatti sono di
Tanio Liotta.
Maida versa un altro calice - una chicca dopo l'altra, lei è gran donna del vino - e sorride: «Ha vinto la nostra caparbietà, il progetto e la voglia di realizzarlo».
Fusari ha nel frattempo scoperto un’altra Milano, che ha cambiato volto rispetto a quella degli anni Ottanta: «Ne ho compreso gli umori e i sentori, ora ne avverto il fascino. Milano ti insegna il confronto e poi fornisce una lezione fondamentale: qui non c’è tempo per cucinare per sé stessi, per il proprio ego. Bisogna pensare solo al commensale. Non è come in provincia, dove puoi godere di un certo ascendente sulla clientela, sfruttare il tuo nome. A Milano no: la città ti mette alla prova, è capace di ucciderti ma ti stimola in modo meraviglioso».

Vittorio Fusari e Maida Mercuri
La clientela è più esigente, contemporanea: «Altrove vengono per mangiare i piatti della nonna, qui se fai il manzo all’olio, lo vogliono 2.0 oppure ti salutano». C’è un rischio: «La frivolezza dell’impiattamento, il cambiamento gratuito».
Fusari lo schiva forte della sua esperienza e della struttura di pensiero: «Allora diventa tutto piacevole, specie qui, sui Navigli».
Non è una zona facile per l’alta ristorazione: ovunque locali di poca o nulla qualità, «ma se impari a conoscere l’ambiente, questo impara a conoscere te, capisce la tua differenza, condivide il tuo percorso… Ecco il segreto di Milano: sa riconoscre il valore del lavoro. Ed è una città che ha compiuto uno sviluppo importante. Expo non è passata invano, l’aver incontrato in quell’occasione le cucina del mondo ci ha fatto crescere».
Senza nemmeno incorrere, dice Fusari, in quanto molti paventavano, ossia la perdita d’identità: «Al contrario: aver acquisito maggior conoscenza della cucine di tutto il mondo ci aiuta ad accrescere la consapevolezza del valore enorme della nostra. Dal confronto usciamo benissimo: la città viaggia e apprezza, ma sa oggi più di allora che la nostra tavola è eccellente. Credo che proprio da questo melting pot culinario possa uscire uno schema nuovo, nel quale noi cuochi italiani ci affrancheremo dai modelli d’importazione. Non avremo più bisogno di copiare franesi, danesi o spagnoli. Milano internazionale riscopre il valore del territorio e del cibo sano».
Un passo decisivo per riscrivere le regole della
Nuova Cucina Italiana, che
Fusari, classe 1953, capelli grigi ma mente sveglia, sintetizza così, dal suo punto di vista: 1) consapevolezza del territorio; 2) no allo spreco alimentare; 3) sapienza di sala; 4) gusto, gusto, gusto.
Mercuri: «Qui una volta era una sorta di Bronx, in via Casali c’era una latteria dove si entrava, si andava nel retro e si acquistavano le autoradio e le biciclette rubate la notte precedente. Spesso riconoscevi la tua, e la riacquistavi». Per auto e moto, invece, conveniva prendere appuntamento. «Ora invece è un caleidoscopio di emozioni: vado a prendere una spremuta di canna da zucchero, poi passo a mangiare un midollo da Giuseppe Zen e magari la sera ceno all’Iyo. In quale altro luogo d'Italia potrei farlo? Le contaminazioni ci hanno fatto crescere, in città funziona anche l’offerta culturale, si è sviluppato il turismo. E attenzione: non si è persa umanità, perché alcune zone vivono ancora la socialità che si può trovare in un paese».
Tutte rose e fiori? «Ma no. Troppi locali puntano sulla poca qualità. Approfittano dell’ignoranza delle persone, vedo pane orribile, insalate immangiabili...». Meglio passare al Pont de Ferr.