Davanti, la placida e bellissima laguna di Grado, con l’oasi faunistica della Val Cavanata e la foce dell’Isonzo: paradiso per oche selvatiche, fenicotteri rosa, maestosi cigni... La scrutiamo dalle terrazze, che sembrano farci tuffare in questo Eden appartato e silenzioso. Qui sorgeva una vecchia caserma della Guardia di Finanza, che il Demanio aveva messo in vendita. «Appena l’ho vista me ne sono innamorata» ci racconta l’architetto udinese Adriana Paolini. Pensava di ricavarci un b&b o qualcosa del genere, poi si è fatta prendere la mano: lei a curare gli interni, il marito Giancarlo Tavano, ingegnere esperto in progettazioni eco-sostenibili e in bio-architettura, a ridisegnarne la struttura. Esito bellissimo, 7 suite di charme, un boutique hotel immerso nella natura, «siamo stati alla Sovrintendenza per farci approvare il progetto. Ci hanno fatto i complimenti», che diventano anche i nostri.

Mancava un solo tassello per completare il quadro: una ristorazione di livello. Così, dal 5 aprile scorso, a gestire le cucine del ristorante
Tarabusino dell’hotel
Oche Selvatiche di Grado (via Luseo 1, località Villaggio Primero. Tel. +39.0431.878918) è stato chiamato un gran professionista del settore,
Roberto Franzin. Lui anagraficamente è un classe 1959 ma ha affrontato la nuova sfida con l’entusiasmo di un ragazzino, la saggezza dell’esperto, la creatività di chi non ha mai smesso di usare bene la testa.
Bel soggetto: di poche parole, ti spiega placido e umile – di quell’umiltà non ostentata, da friulano vero anche se lui è originario di Noventa di Piave, in Veneto – i suoi progetti, le sue innovazioni, i suoi brevetti. Una mente fertile anche nel capire subito come dovesse operare, al Tarabusino: «Voglio sostenere il territorio, valorizzarne le produzioni. Nel menu metto piatti realizzati quasi esclusivamente con materia prima locale: quella che ci regala il mare (cefali, moscardini, seppioline...), quella che ci portano gli agricoltori dei dintorni, penso agli asparagi di Fossalon, alle pesche di Fiumicello, alle fragole». Persino la mozzarella è fornita da un piccolo caseificio locale.
Poi c’è la farina: viene direttamente dall’estro di
Franzin. Si chiama
Macino, è brevettata, e ottenuta con un processo produttivo semplice ma geniale: si parte dall’idea di promuovere l’utilizzo delle biomolecole nobili presenti all’interno degli scarti di lavorazione delle uve. «Ho cercato in questo modo di creare una rete territoriale per una nuova economia di prodotti a elevato valore aggiunto e tecnologico. Ogni anno in Italia vengono prodotti tra 1 e 2 milioni di tonnellate di rifiuti solidi dalla trasformazione delle uve, corrispondenti più o meno al 20% in sostanza secca della produzione di uva».

Una filiera di riutilizzo dei sottoprodotti della vinificazione, vinacce fresche o fermentate e fecce, è sempre esistita: la produzione di grappa ne è l’esempio più diretto. La necessità di ridurre l’impatto delle produzioni vitivinicole e abbattere il volume dei rifiuti così come i loro costi di smaltimento suggerisce la valorizzazione di uno scarto estremamente ricco e utilizzabile per l’estrazione di sostanze a elevatissimo valore. Uovo di Colombo: ottenere una farina da quel che si butta dell’uva – in questo caso la Ribolla gialla biologica de
Il Carpino, nella vicina a San Floriano del Collio. Le vinacce vengono essiccate, quindi ridotte in farina con macine a pietra avendo cura di mantenere i grani un po’ irregolari, di non polverizzarli troppo, per ottenere una texture piacevole alla masticazione. La farina così ottenuta viene utilizzata in percentuale variabile – diciamo in media attorno al 30% - per la produzione di pani, polente, crackers, paste, anche senza glutine.
Li abbiamo assaggiati: davvero eccellenti, con particolare citazione per la pasta, di qualità sorprendente sia nel gusto che nella consistenza. E poi c'è il biscotto
Tarabusino, con uva Verduzzo passita, nocciole di San Daniele e farina di grano rosso friulano... Un mondo che si dischiude. «Il vantaggio nel caso dell’uso della vinaccia è il costo minore, in quanto sottoprodotto da un’altra lavorazione di maggior pregio; e l’aspetto, non trascurabile, di non dover dedicare superfici agricole ad usi non alimentari»: la sostenibilità si coniuga col piacere goloso.
Una bella idea, foriera di grandi sviluppi, che si coniuga perfettamente con le logiche eco-friendly del
Tarabusino e delle
Oche Selvatiche.
Franzin è uno chef di lungo corso, figlio d’arte, la mamma era cuoca alla trattoria
Guaiane di Noventa, anche il fratello
Franco ne ha seguito le orme. Nella sua carriera, illuminata da stelle, il
Villa Abbazia di Follina (Tv), il
Sanlorenzo e il
Ceppo a Roma, poi per tre anni la
Taverna di Colloredo, lasciata a inizio 2016 per dedicarsi alla riflessione e all’insegnamento: «Mi ero ripromesso di non tornare più ai fornelli se non avessi trovato un locale dove poter esprimere appieno la mia cucina». L’incontro col
Tarabusino l’ha costretto a rompere gli indugi.
Vi propone una gran bella tavola, territoriale ma moderna, materica e tecnica insieme. Perfetta è la simbiosi con l’ambiente circostante, bella l’intesa con la proprietà. Un nuovo indirizzo del mangiarbene italiano, con l’attenzione alla sostenibilità ambientale come plus da rimarcare. Bravissimi tutti. (Nella fotogallery, firmata Tanio Liotta, la splendida cena che abbiamo consumato in uno splendido posto, circondati da splendide persone).