A fine maggio sono stato invitato in Colombia per due eventi collegati. Il primo era organizzato dalla Fundacion Corazon Verde di Cristina Botero, un’associazione senza fini di lucro che da 20 anni raccoglie fondi per le vittime e gli orfani del corpo di polizia, duramente provato nei decenni del conflitto civile con i guerriglieri delle Farc, Forze armate rivoluzionarie. Organizzano spesso cene in vari ristoranti di Bogotà, la capitale, per una causa nobile che in Italia conosciamo a malapena.
Negli stessi giorni l'evento prevedeva anche un importante congresso del Basque Culinary Center, in trasferta in Colombia per allargare la sua rete all’America Latina, un continente che, gastronomicamente, sta covando un fermento molto importante. È un invito che mi ha onorato perché ero l’unico cuoco italiano presente. C’erano colleghi argentini bravissimi come Narda Lepes, Germán Martitegui e Tomás Kalika, l’amico peruviano Virgilio Martínez e José del Castillo, il cileno Rodolfo Guzmán, il basco Josean Alija. I padroni di casa erano Harry Sasson, marito di Cristina Botero, e Leonor Espinosa, tra i protagonisti di questa piccola rivoluzione colombiana, cuochi che hanno fame di cambiare il loro paese attraverso la sua identità di cucina.

Gruppo Colombia. Andrea Aprea (a sinistra, al centro) con i colelghi latino-americani
È la stessa missione che mi sono dato io, il messaggio che ho cercato di trasmettere a una platea sudamericana, di circa 800 persone. Mi ha colpito la presenza al teatro di tanti giovani, provenienti da tante scuole diverse, un bel messaggio per le generazioni che verranno. Cosa sapevano citare della nostra cucina? Quasi solo stereotipi: «la pizza, la pasta». Girando per la città e confrontandomi coi colleghi, ho notato con stupore che non esistono, o quasi, insegne italiane. E quelle poche preparano una versione “americanizzata” della nostra tradizione. Ho pensato che occorre fare ancora tanto per far capire al mondo che l’Italia è andata avanti negli ultimi 20 anni, molto oltre gli stereotipi di sempre. Magari a Londra o New York la gente sa bene cos’è un’amatriciana o una carbonara, in Colombia mi ha sorpreso notare che non lo sapeva quasi nessuno.
Nel mio piccolo ho cercato di sottolineare il lavoro che faccio da sempre, la tessitura di un dialogo tra tradizione e contemporaneità, il tentativo di dare nuove forme a sapori riconoscibili. Ho portato la
Caprese dolce-salata, forse il mio piatto più distintivo, la preparazione che dice anche molto delle mie origini napoletane, rilette secondo una chiave un po’ attuale. Lo stesso esercizio del secondo piatto della
ponencia, la
Patata in stagnola all’amatriciana, preparazione che avevo già portato su un palco di Identità Golose. Volevo significare il cambiamento importante che sta cambiando pelle ai nostri ristoranti, una piccola rivoluzione che guarda avanti ma che non può prescindere dalla memoria. Mi sembravano tutti attenti e interessati.

Aprea incasa le lodi di Harry Sasson e Quique Dacosta
Anche le cene sono andate molto bene. Ho fatto un 4 mani con
Harry Sasson, un signore che gestisce 5 ristoranti a Bogotà, tutti di una certa ambizione. Ho portato ancora la
Caprese, il
Tortello con la genovese di agnello ma ho anche cercato di cimentarmi con le loro materie prime: ho cucinato il
Baccalà alla pizzaiola ma, al posto del merluzzo sotto sale, l’ho fatto col
mero, un pesce con caratteristiche simili, che nuota nelle acque caraibiche. Erano tutti felici. Ed ero felice anch’io perché ho fatto mia la nota massima: un viaggio non è un viaggio se non torni a casa più ricco di prima.