Ferran Adrià vive e lotta insieme a noi. Ok, non cucina (quasi) più; va bene, El Bulli, il suo indirizzo mitico, è ormai chiuso dal 30 luglio 2011, «malinconia a Cala Montjoi vicino Roses. Dove sorgeva il Bulli, ora c’è un cantiere. Come dicevano già i latini: sic transit gloria mundi. E’ proprio vero: bisogna vivere il presente e non pensare vi sia qualcosa che duri in eterno», ha scritto recentemente Paolo Marchi qui. Esatto, nulla dura in eterno: ma l’eredità di Adrià (per)dura nella cucina mondiale: perché la sua lezione – tecnica, ma soprattutto concettuale – è stata recepita un po’ ovunque, propugnata in primo luogo dai tantissimi i cuochi che hanno lavorato con lui, i bullinians li chiama il sito www.ccma.cat della Corporació Catalana de Mitjans Audiovisuals, radio e televisione pubbliche create dalla Generalitat de Catalunya, ossia la regione autonoma catalana. I giornalisti Louis Hill e Irene Vaqué hanno contato quasi 150 chef stellati in tutto il mondo che devono (anche) la loro fortuna dal fatto che sono transitati – chi per pochi giorni, chi per anni: ma in entrambi i casi respirando a piene polmoni aria di libertà creativa – da elBulli. Ne hanno ricavato una mappa globale dei bullinians, con la quale potete giocare qui.
Scrivono i colleghi: “L’eredità di Adrià continua vivere attraverso cuochi che ne hanno adottato lo spirito, ossia l'innovazione e la creatività con prodotti eccellenti. Questo è il caso del fratello Albert, che con il progetto elBarri ha acceso sulla mappa culinaria di Barcellona tre nuove stelle, quelle di Tickets, Hoja Santa e Pakta (leggi qui). Ma è pure il caso di Andoni Luis Aduriz, chef del basco Mugaritz, o dei tre responsabili di Disfrutar (leggi qui) a Barcellona, Oriol Castro, Mateu Casañas e Eduard Xatruch (leggi qui), che si sono incontrati proprio a elBulli”.
Ma, come sottolinea
www.ccma.cat, i
bullinians sono un po’ ovunque: in Svezia e Danimarca, Stati Uniti e Portogallo, Regno Unito e persino Grecia. In Italia ne sono citati quattro:
Stefano Baiocco, Massimo Bottura, Moreno Cedroni ed
Enrico Crippa. Elenco che tiene conto solo degli stellati (e neppure tutti), ma che comunque risulta ingeneroso con chi de
elBulli è tra le figlie predilette, anche se non ancora premiate dalla Michelin, in fondo il suo ristorante ha aperto solo da pochi giorni, a San Miniato: parliamo di
Loretta Fanella, dal primo dicembre ai fornelli dell'
Opéra del Relais Sassa Al Sole. Lei a
elBulli è rimasta tre anni, dal 2003, diventando responsabile della pasticceria, «coordinavo l’attività di sette persone». Cosa ti ha dato quell'esperienza? «In generale, ha cambiato il modo di concepire un piatto. Riassumo così: “Andare oltre quello che si sapeva fare prima”. Io mi sono ritrovata a stare otto ore consecutive a lavorare con una mela: questo ti porta per forza (se hai talento,
ndr) a pensare a qualcosa di diverso, a stravolgere il già noto per ottenere originalità».
Un concetto che sottolinea anche Stefano Baiocco, del Villa Feltrinelli, che a elBulli è rimasto tre mesi, nel 2003, «che sarebbe stato l’anno decisivo, quello delle arie e delle sferificazioni, oggi magari a parlare di queste cose qualcuno storce il naso, ma fu una svolta». Ci dice al telefono dalla sua Ancona: «Fino all’inizio degli anni Duemila per fare esperienza si partiva per la Francia, era la mecca, oppure anche per Svizzera, Germania o Londra, ma in ristoranti francesi. Nessuno andava in Spagna, il Giappone era gastronomicamente parlando un Paese considerato solo per il sushi, insomma eravamo un po’ chiusi, provinciali. Io stesso avevo inanellato stage da Pierre Gagnaire, da Alain Ducasse, e mi sentivo quasi completo, dal 2001 ero sous chef a Palazzo Sasso con Pino Lavarra. Avvertivo però che mi mancava la ciliegina, e in quegli anni s’iniziava diffusamente a parlare di questo funambolo catalano, che mi incuriosì».
Nel 2002 manda un curriculum a
elBulli, risposta negativa: tutto pieno, ripassi tra 365 giorni.
Baiocco lo fa: «Mi presero, dal luglio al settembre del 2003, nel frattempo
Adrià era ormai circondato dalla fama di rivoluzionario, nuovo genio». Hai parlato di arie, di sferificazioni: ma qual è la sua eredità più importante? «Prendevamo un prodotto semplice, diciamo un pomodoro. Normalmente se ne sarebbe utilizzata solo la polpa, al limite la buccia. Noi lavoravamo per ore per trovare il modo di usare tutto, sperimentando a 360°. Si andava oltre all’ovvio». Un altro insegnamento di
Adrià «è stata l’organizzazione della cucina: brigate molto grandi (anche grazie agli stagisti, che erano almeno il 60% degli effettivi,
ndr) hanno reso necessaria una disciplina perfetta. Ed è nata la figura dello “chef pensante”, ossia del responsabile della parte creativa, distinto da chi aveva invece il compito di coordinare la cucina: fino ad allora destinare una figura “alle idee” era sempre apparso uno spreco».
Moreno Cedroni è annoverato tra i bullinians doc, anche se a elBulli è stato solo per un breve corso. Ma decisivo. Scrive Adrià stesso: “Conobbi Moreno nell’inverno del 1998 durante uno stage di tre giorni organizzato dal Gambero Rosso presso elBulli. Sin d’allora mi dette l’impressione di essere un cuoco speciale, con una sensibilità molto spiccata. Ma il nostro particolare feeling non iniziò prima del 2001, anno nel quale scoprii il suo locale (…). Arrivammo a Senigallia (…). Appena parcheggiammo di fronte, avvertii subito un forte odore di mare (…). Sapevo che Moreno era uno dei migliori chef italiani, però quello che più tardi appresi, degustando e apprezzando i suoi piatti, fu che è un cuoco con un’anima, cosa che distingue un semplice cuoco da uno magico”.

Lo staff de elBulli fotografato nel 2007
Dice
Cedroni della sua esperienza a
elBulli: «Senza
Adrià la cucina sarebbe almeno dieci anni più indietro, perché ne ha cambiato la fisionomia. Ha cancellato la nostra sudditanza rispetto ai francesi, eppure in Italia il suo pensiero è spesso deformato, è considerato “quello delle polverine”, mentre basterebbe leggere i suoi libri – carta canta - per capirne la profondità, che farà scuola per decenni. Lui ci ha regalato un concetto: la libertà creativa».
Cedroni è reduce da una cena dal succitato Tickets, uno dei locali a Barcellona di Albert Adrià, il fratello: «Ho ritrovato alcune atmosfere de elBulli, soprattutto nel reparto dolci – regno del genio di Albert - ma non solo. Anche per il salato, buona parte delle tapas sono quelle de elBulli, in un percorso molto divertente». Nota Cedroni – ma anche Baiocco – che quella mentalità vocata alla ricerca si percepisce ancor oggi in chef come Quique Dacosta o Andoni Luis Aduriz: «Ovvio che, tra molti piatti innovativi, ce n’erano e ce ne sono anche di sbagliati». Come dice Aduriz stesso (leggi qui): «Il peggio è l’indifferenza. Meglio sbagliare».
Sono stati anche altri i bullinians italiani: come Luca Lacalamita, oggi pastry chef all'Enoteca Pinchiorri, per lui oltre un anno prima da stagista al ristorante catalano, poi all'interno de El Taller, il laboratorio di ricerca bulliano, «ero con Albert Adrià, Castro, Casañas, Xatruch...». Spiega: «A mio parere, la forza stava in gran parte lì, nella grandezza di Albert, la persona più creativa che io abbia mai conosciuto. Ferran aveva più impatto, era più estroverso, mediatico. Ma la capacità di innovare di Albert era davvero impressionante. I meriti di elBulli vanno ben distribuiti». Quanto ai supposti demeriti, Lacalamita ha le idee chiare: «S'è parlato tanto di cucina molecolare in termini negativi, ma io la penso come Hervé This: la cucina molecolare non esiste! Nel senso che lo è anche cuocere un uovo al tegamino, o il pane. Ho sempre combattuto queste sciocchezze».
Da Cala Montjoi sono passati poi Mauro Buffo, ora al 12 Apostoli di Verona, Luca Meccheri, Luca Balboni, a lungo con Bottura, e così via. Lo stesso Mauro Uliassi. E Riccardo Di Giacinto, nel 2003. Prima ancora Corrado Fasolato e Davide Oldani. E più tardi, Nicola Dinato del Feva, ce lo ha raccontato lui stesso qui. Chiudiamo però questa rassegna con una foto, la seconda della nostra fotogallery sopra: immortala Ferran Adrià a Identità Milano, nel 2006. Al suo fianco un volto noto ai buongustai, che in quell’occasione fece da traduttore al catalano: Terry Giacomello, dell’Inkiostro di Parma: «Adrià mi ha cambiato il modo di pensare, di vedere le cose. Non è stata soltanto la libertà creativa, ma anche la disciplina e l’atteggiamento, ti trasmetteva grande umiltà. Ecco: ti faceva vedere le cose sotto un altro punto di vista».